Corriere della Sera

COSÌ I PROFUGHI IMPARANO CHE IL DIVERSO NON È NEMICO

- Di Giampaolo Silvestri

Caro direttore, passano casa per casa, tenda per tenda, fino agli ultimi sperduti villaggi della campagna libanese, gli educatori che cercano di riportare a scuola i bambini siriani rifugiati in Libano con le loro famiglie. Parlano con i genitori, spesso spaventati, e cercano di convincerl­i che sì, anche in una situazione di emergenza, è possibile, anzi di più, è fondamenta­le, che i loro figli vadano a scuola. Imparino a leggere e scrivere, ma soprattutt­o a stare insieme, a scoprire il gusto dell’appartenen­za a una comunità. Lo ha raccontato Rana Najib, siriana, che cura i progetti educativi di Avsi cofinanzia­ti da Unicef in Libano, all’hearing promosso dalle Nazioni Unite in vista del summit di settembre sul tema migranti e rifugiati, e non ha lasciato indifferen­ti. Perché dentro lo smarriment­o globale sul tema delle migrazioni, continuame­nte associato alla ferita profonda del terrorismo rispetto al quale ci scopriamo ogni ora più vulnerabil­i, emerge l’urgenza ultima di ripartire ancora dall’educazione. Non è una ricetta dalla soluzione immediata, ma un investimen­to di lungo periodo. Eppure dall’Africa subsaharia­na al Medio Oriente, si tocca con mano come sia questo l’ambito più sfidante e decisivo per chi sa guardare un po’ oltre l’immediato.

Educazione Il progetto si ispira allo scoutismo e stimola il gusto di appartener­e a una comunità aperta

La domanda è però quale educazione serva. Perché non basta concentrar­si sul garantire programmi seri, competenze e un’adeguata cancelleri­a… Anche Isis e gli estremisti violenti hanno le loro scuole e preparano molto bene. Ottengono prestazion­i altissime dai loro allievi che «per la causa» arrivano a uccidere e a uccidersi.

Perché? Perché alla fine con la loro proposta radicale i terroristi sembrano rispondere al bisogno di buone ragioni per cui dare la vita che avverte in sé ogni ragazzo e ragazza del nostro tempo e di ogni continente, in modo consapevol­e o meno, disordinat­o o folle. E se in un’epoca in cui sia la cultura occidental­e che quella islamica appaiono segnate da una crisi profonda, questa radicalità implica l’uso delle armi, non importa. Niente ferma. Dal prendere sul serio questo bisogno partono proposte educative alternativ­e

in Kenya e in Libano, per citare solo due casi tra i tanti. A Dadaab, campo dove vivono circa 400.000 profughi somali e dove è stata arruolata la squadra assassina della strage di Garissa, o tra gli adolescent­i siriani in attesa di una pace sempre più inafferrab­ile.

A Dadaab sono stati avviati dei gruppi educativi e ricreativi che si ispirano allo scoutismo: nel giro di poco la proposta ha coinvolto centinaia di ragazzi, che nella scoperta del gusto di appartener­e a una comunità aperta, dinamica, costruttiv­a, hanno voltato le spalle al fascino dell’opzione violenta. Hanno

Esperienza I ragazzi scoprono il piacere di stare insieme, nonostante le differenze

scoperto, vivendo l’esperienza dello stare insieme, che chi siede accanto, anche se viene da un’altra città, se frequenta un’altra moschea o chiesa, se parla un’altra lingua, se ha dei costumi diversi, non è un ostacolo da abbattere, ma una possibilit­à di crescita. Che il diverso da me non è un problema, ma un’occasione per costruire qualcosa di buono per me e quindi per l’intera comunità.

In Libano sui banchi di scuola e giocando insieme i bambini siriani, sunniti e sciiti, sono accompagna­ti a scoprire in primo luogo che chi viene dalla città «nemica», non è per forza un nemico. Ma questo non viene «insegnato» a parole, ne fanno esperienza. E l’esperienza resta nella carne. Un’esperienza di appartenen­za che come ogni bene contagia e sa disarmare. Segretario generale

Fondazione Avsi

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