LA REPRESSIONE DI ERDOGAN COLPISCE ANCHE I GIORNALISTI
Ci scusi presidente Erdogan, lei continua a ripetere che «anche la Francia ha proclamato lo stato di emergenza contro il terrorismo». Vero. Ma la Francia non ha messo in stato di fermo oltre 60.000 persone. Non ha dato inizio alla metodica persecuzione degli intellettuali, come lei sta facendo dal golpe del 15-16 luglio.
Il presidente Hollande non ha ordinato la «sospensione» di quasi 1.600 presidi universitari e neppure quella di migliaia di funzionari del ministero dell’Educazione, professori, docenti di liceo e delle scuole secondarie. Soprattutto, visto che scriviamo da un giornale, gli inquirenti francesi non hanno lanciato la caccia ai giornalisti. Ben 42 reporter e commentatori turchi hanno invece ricevuto il mandato di arresto. Tra loro anche la 72enne Nazli Ilicak, ex parlamentare ed editorialista del filo-governativo Sabah, che, tanto per non sbagliare, l’aveva già licenziata tre giorni fa. Altri sono in lista.
Le ultime notizie riguardanti la repressione in atto nel suo Paese erano paventate, ventilate, in molti casi già previste. Purtroppo non è la prima volta che i media vengono chiusi e i reporter perseguitati nei 13 anni dei suoi mandati da premier e poi presidente. Ma adesso la stessa stampa a lei più fedele sottolinea che sono stati anche i giornalisti e la fitta rete dei social media, che lei in passato ha cercato di imbavagliare, a lottare contro i golpisti.
Che cosa avrebbe fatto se il suo messaggio su FaceTime non fosse stato ripreso da twitter, rilanciato dai blog, trasmesso da oltre 25 televisioni, alcune delle quali dell’opposizione laica? Come avrebbe combattuto i golpisti se i suoi appelli alla «mobilitazione nazionale» avessero trovato solo il silenzio della censura?
Tanti commentatori hanno osservato che ora lei, forte della sua vittoria, ha due strade: la repressione tradizionale, oppure il dialogo con i suoi critici. Purtroppo sta scegliendo la prima. E non a caso ad applaudirla non c’è l’Europa, bensì la Russia di Putin.