La studiosa, traduttrice e autrice scomparsa a 98 anni Julia Dobrovolskaja, voce russa degli scrittori italiani (e viceversa)
e poi nel lager di Chovino. Con l’amnistia di Stalin, la riabilitazione. E l’insegnamento universitario, le traduzioni dei libri di Sciascia, Moravia, Parise, Rodari, le visite con la Callas, Guttuso, Abbado, Grassi, Manzù, Gregotti, Brandi, Squarzina, Nono, Cacciari. Dopo Budapest e Praga, Julia decide di lasciare l’Urss e di venire in Italia. Guttuso non approva la scelta dell’amica («traditrice della patria comunista») e da quel momento interrompe qualsiasi rapporto.
In Italia, la Dobrovolskaja insegna russo nelle università di Trento, Trieste, Venezia e Milano (l’ultima lezione, nel 2003, alla Statale, a 86 anni), scrive 7 manuali e il Grande dizionario russo-italiano italiano-russo (Hoepli, alcune pagine iniziarli della prefazione a Rivolta, nelle quali rievoca il suo trasferimento al Policlinico di Milano in un momento in cui il cuore sembrava avesse ceduto definitivamente. «Se la sanità milanese è al top, il chirurgo che mi operò — Pietro Broglia, un dottore pasciuto e avanti con gli anni — è un’eccellenza nel suo campo, un vero fuoriclasse (…). Bofonchiava: “Sono vecchie queste arterie, non vanno. Dovremo rimandare”. “No, dottore, ne cerchi un’altra. Saprò sopportare”. Il dolore in realtà era atroce, ma in quel momento non fu una preghiera a uscirmi dalle labbra, bensì un sonetto: “Tanto e gentile e tanto onesta/ pare la donna mia/ quand’ella altrui saluta…”. Delizioso e strabiliante fu che Broglia proseguì con me: “C’ogne lingua devén tremando muta…” e che subito dopo, anche la dottoressa con la frangetta brizzolata, con gli occhi incollati al monitor, si unì a noi. Dopo quasi tre ore di ricerche, il povero, sudatissimo Esculapio (parola che Cechov tanto amava) stanò la vena adatta e il pacemaker fu messo a dimora sotto la clavicola sinistra».