«La paura sta crescendo ma rifiutiamo la vendetta»
«Non vorrei che la paura venisse strumentalizzata ad arte»: il segretario generale della Cei, l’arcivescovo Nunzio Galantino, evoca il rischio che dalla paura possa nascere il desiderio di vendetta. «Non dobbiamo farci travolgere da reazioni puramente istintive».
CITTÀ DEL VATICANO Lo dice subito: «Non vorrei che la paura venisse strumentalizzata ad arte». Il vescovo Nunzio Galantino, segretario generale della Cei, si trova già da qualche giorno in Polonia per la Giornata mondiale della gioventù. Dall’Italia sono già arrivati 90 mila giovani di 179 diocesi, accompagnati da 2.292 sacerdoti. Ieri sera monsignor Galantino ha concelebrato la messa di inaugurazione.
È uno dei vescovi più vicini a Francesco e domenica, nella messa a San Bernardino per responsabili e animatori di «Casa Italia», aveva osservato: «Continuo a domandarmi come si possano tenere le mani giunte in preghiera e poi con le stesse mani respingere il fratello che chiede di essere accolto! Continuo a domandarmi come si possa con la stessa bocca invocare il Padre e pronunziare dei “no” decisi e sprezzanti di fronte al bisogno del fratello! Continuo a domandarmi come si possa elevare la propria mente a Dio e semmai impegnare la stessa mente a trovare giustificazioni per
chiudere il proprio cuore dinanzi a chi è profugo e perseguitato!».
Eccellenza, è un’estate scandita dagli attentati, c’è paura, i genitori dei ragazzi che andranno o sono già in Polonia sono preoccupati, com’è la situazione a Cracovia?
«Alla luce delle cronache che rendono buio questo periodo, la preoccupazione è comprensibile e non vorrei passare per uno che dispensa parole di rassicurazione a buon mercato, nonostante l’impegno e la cura posti sia dalla sicurezza che dalla nostra pastorale giovanile. Quello che posso assicurare, però, è la gioia consapevole che si respira tra i nostri ragazzi e che avvolge i momenti di riflessione e quelli di festa. Per le strade le voci dei giovani intrecciano lingue diverse e dicono la loro disponibilità a incontrarsi in maniera spontanea e costruttiva: l’esatto opposto della reazione che i terroristi vorrebbero suscitare».
A Rouen c’è stato il primo attacco di matrice islamista a una chiesa in Europa. Che cosa prova?
I rapporti con l’Islam Gli immigrati interrogano la nostra anima. Non esistono alternative al dialogo con l’Islam: è un contributo alla crescita della cultura dell’incontro
«La notizia di questo attentato ci ha raggiunti nel momento in cui come vescovi italiani — qui a Cracovia siamo 136 — davamo inizio al nostro primo incontro: ci siamo ritrovati accomunati nel dolore e nello sgomento. La nostra preghiera è stata anzitutto di solidarietà con la comunità di Rouen, colpita nei suoi fedeli e nel suo pastore, morto come martire».
Quale è il rischio più grande, ora, per l’Europa e tutti noi?
«Inutile girarci attorno: oltre all’indignazione, la tensione e la paura crescono ed è comprensibile; non vorrei però che venissero strumentalizzate ad arte. Il cristiano non è certo un ingenuo, ma non si lascia nemmeno travolgere da reazioni puramente istintive. Per questo come vescovi siamo subito usciti con una nota che invita a evitare logiche di chiusura e di vendetta, per contribuire alla costruzione di una società riconciliata e aperta alla speranza».
Lei domenica nell’omelia ha invitato an- cora una volta all’accoglienza. Chi contesta la linea di Francesco e la Chiesa dirà: avete visto che cosa sta succedendo?
«Il mio invito all’accoglienza era e rimane fortemente ispirato al Vangelo. È fin troppo facile speculare su momenti drammatici come questo. Oggi più che mai dobbiamo, invece, rifuggire semplificazioni e stereotipi, per guardare con intelligenza una realtà che ha bisogno di gente capace di reagire in maniera razionale ed efficace: che non significa, ripeto, in maniera superficiale e buonista. La cattiveria, la ritorsione e la violenza — anche se “solo” verbali – non servono a risolvere i problemi della collettività: “Il compito a cui dobbiamo lavorare oggi — ci ha ammonito Erich Fromm — non è di arrivare alla sicurezza, ma di arrivare a tollerare l’insicurezza”».
Il problema del rapporto con l’Islam: la strategia del dialogo è illusoria o è l’unico atteggiamento possibile per evitare di fare il gioco dei fanatici?
«Considero il dialogo come il “luogo” in cui le religioni sono chiamate a offrire un contributo decisivo alla crescita di una cultura dell’incontro. Da questo punto di vista, gli immigrati e i profughi interrogano innanzitutto la nostra anima ecumenica e la nostra capacità di essere solidali: non dimentichiamo che spesso quelli che giungono fra noi sono cristiani, in fuga dalla persecuzione e dalla guerra.
Nei confronti dei musulmani — e non mi riferisco ovviamente ai fanatici o agli integralisti — come di ogni persona che bussa alla nostra porta e tende la sua mano, non abbiamo alternativa all’integrazione, nel rispetto della nostra cultura e delle nostre leggi. Non vedo davvero altra prospettiva — sia dal punto di vista sociale che ecclesiale — che possa guidare la costruzione di una città aperta e di una Chiesa che, come richiama papa Francesco, “non è una dogana, ma la casa del Padre dove c’è posto per ciascuno con la sua vita faticosa”».