Come fermare l’emulazione
Un crimine ispirato da un altro, un tema che ritorna La suggestione ha origini nella letteratura e poi nel cinema ma non si deve diventare l’ufficio propaganda dei mostri
Emulazione è un termine neutro: può essere splendida o terribile. Si possono emulare gli eroi o gli assassini. Sono questi, purtroppo, a godere oggi di maggiore popolarità.
I media
Quello che sta accadendo in Europa è evidente: il male genera il male, il sangue chiama il sangue, l’imitazione dell’orrore genera altro orrore. La successione delle stragi — ieri è toccato a una chiesa nella Francia estiva di provincia — non lascia dubbi: ogni strage ne ispira un’altra, in una macabra progressione.
I barbari religiosi trovano ispirazione, moventi e forza nelle nefandezze di chi la ha preceduti. La carneficina diventa un modello da imitare. Dobbiamo rassegnarci o possiamo impedirlo?
Per rispondere, dobbiamo provare a capire. Per prima cosa, occorre ricordare che il fenomeno non è isolato e non è nuovo. La lingua inglese ha un vocabolo per questo genere di reato: copycat crime («un crimine che appare influenzato da un altro, celebre crimine»). Venne usato per la prima volta nel 1916, in seguito alla catena di omicidi ispirati da Jack the Ripper (Jack lo Squartatore).
La traduzione italiana di copycat è «copione»: e si può plagiare anche l’orrore, purtroppo.
La criminologia studia il fenomeno da tempo. Negli Anni 90 sono avvenuti centinaia di episodi violenti nelle scuole Usa, molto simili tra loro, con utilizzo di armi da fuoco. Nel film Copycat (1995), un personaggio ispira i propri delitti alle figure di serial killer realmente esistiti, tra cui Jeffrey Dahmer, «il mostro di Milwaukee». Altri film — Scream, Fight Club, Il cavaliere oscuro con Batman — sono serviti da matrice per crimini reali (esiste una pagina di Wikipedia intitolata «List of alleged “Natural Born Killers” copycat crimes», «Lista di crimini apparentemente ispirati a “Natural Born Killers”»). Anche la serie televisiva Breaking Bad è sospettata d’aver ispirato alcuni reati, dal 2010 al 2013, quando un insegnante è apparso in tribunale dopo aver rubato $10.000 necessari a pagarsi le cure mediche.
La suggestione tragica ha le origini in letteratura. Ed è cominciata come autosuggestione. Il caso più celebre fu I dolori del giovane Werther di Goethe. Pubblicato nel 1774, prese un tema classico del romanticismo tedesco — lo struggimento per un amore impossibile, la morte scelta come fuga da un mondo ipocrita — e provocò un’epidemia di suicidi in tutta Europa. Alcuni Paesi, temendo la psicosi collettiva, decisero di vietarne la circolazione. L’«effetto Werther» tornò nel 1802, dopo la pubblicazione in Italia del romanzo Le ultime lettere di Jacopo Ortis di Ugo Foscolo, anche questo epistolare e dalla trama simile.
La situazione, oggi, è molto diversa e incredibilmente più grave: non suicidi d’ispirazione letteraria, ma omicidi e stragi, spesso d’ispirazione religiosa. Gli amplificatori non sono più libri, o film, ma i media e i social media: il racconto e i commenti di una strage rischiano di ispirarne altre. Per impedirlo, la strada è una sola: compiere scelte precise e tempestive.
Noi giornalisti, per esempio, dovremmo renderci conto: raccontare tutto ciò che sappiamo, e mostrare tutto ciò che possiamo, è sbagliato. Rischiamo di diventare l’ufficio-propaganda dei nuovi mostri e di fornire il «libretto d’istruzioni» ai futuri assassini. L’emulazione si nutre anche di descrizioni macabre e precise, di grafiche fin troppo istruttive, di biografie che diventano involontarie glorificazioni del martirio.
Tutti — sui giornali, in televisione, sui siti e sui social — dobbiamo evitare di spettacolarizzare la morte. Dobbiamo astenerci dal fornire dettagli delle esecuzioni (a Rouen e a
Tutti — sui giornali, in tv, sui siti e sui social — dobbiamo imparare a pesare le parole
Dacca è stato fatto, purtroppo). E dobbiamo imparare a pesare le parole. Parlare di «successo di un attentato» è sbagliato (così com’è pericoloso raccontare del «fallimento di un suicidio»). Scrive Loren Coleman, un etologo americano, autore di The Copycat Effect: «I media devono abbandonare i cliché del “bravo ragazzo della porta accanto” e del “lupo solitario”. L’imitatore criminale non è misterioso, non è in salute, non ha ambizioni. Spesso possiede una combinazione fatale di arroganza, depressione e malattia mentale».
Un ritratto accurato dei nuovi barbari, ai quali non dobbiamo fornire né spunti né occasioni.