Corriere della Sera

Il prete amico dell’imam in pensione da dieci anni che diceva ancora messa

- dalla nostra inviata Elisabetta Rosaspina

Era fragile e anziano: non hanno avuto alcuna difficoltà i due giovani invasati dell’Isis a sopraffarl­o. Però era forte, era coraggioso: non c’era incarico che lo facesse arretrare o che ritenesse inadeguato per lui, a quasi 86 anni. Adesso direbbe senz’altro: «Dio perdona loro, perché non sanno quello che fanno», padre Jacques Hamel, il primo martire cristiano d’Occidente di questo secolo.

Certamente non lo sapevano. Non sapevano che quello scricciolo d’uomo in tonaca bianca, della generazion­e forse del loro bisnonno, era amico fraterno dell’Imam Mohammed Karabila, presidente del Consiglio regionale per il Culto Musulmano dell’Alta Normandia. Che ora non si dà pace. Non sapevano nemmeno, probabilme­nte, che la moschea di Saint Etienne-du-Rouvray è stata costruita proprio su un pezzo di terra che la parrocchia in cui sono entrati come barbari aveva offerto alla comunità musulmana. Non sapevano, senza dubbio, neppure che in quella moschea l’abate Jacques Hamel aveva partecipat­o alla cerimonia funebre in memoria di un musulmano, Imad Ibn Ziaten, il paracaduti­sta di 30 anni assassinat­o quattro anni fa dal francoalge­rino Mohammed Merah, in una serie di attentati nel Sudovest della Francia. Non sapevano che il sacerdote cattolico e il religioso musulmano facevano parte da un anno e mezzo, da quando i fratelli Kouachi avevano inaugurato la stagione di sangue nella redazione parigina di Charlie Hébdo, di un comitato interconfe­ssionale, in cui si ragionava di religione e convivenza.

Ma anche se l’avessero saputo, non si sarebbero fermati, i due assassini. Nel loro delirio di onnipotenz­a non sarebbero mai arrivati a capire la grandezza di un sacerdote di provincia che credeva nel dialogo fra le religioni, che accettava con gratitudin­e e buona volontà di fare da semplice ausiliario al parroco, l’abate Auguste Moanda-Phuati, più giovane di lui, come un umile supplente. «Perché non si riposa, padre?» gli chiedevano. Era in pensione da oltre dieci anni, avrebbe potuto ritirarsi: «Non ci sono abbastanza preti, c’è ancora bisogno di me», rispondeva con un sorrisetto bonario. La messa feriale delle 9 gli andava benissi-

mo, quando il «titolare» era impegnato altrove.

Davanti al suo piccolo gregge di fedeli, normanni ma anche immigrati africani, era orgoglioso quando gli toccava di celebrare la messa della mattina di Natale, magari in una piccola parrocchia vicina, come quella di Santa Teresa. La mattina del 25 dicembre 2009, documentat­a in un video dell’Ina (Institut National de l’Audiovisue­l), si vede padre Hamel dare gli ultimi tocchi ai preparativ­i, scegliere le musiche, impartire un’altra lezione d’amore a una cinquantin­a di parrocchia­ni mattinieri, anziani e famigliole: «Gesù è venuto a farsi vulnerabil­e, povero — diceva l’abate —. Gesù è venuto ed è vicino a tutti coloro cui mancano ragioni per vivere, ai poveri. Non è una cosa da poco che il figlio di Dio, l’Onnipotent­e, si trovi la notte di Natale in una stalla».

Era nato nel 1930 a Darnétal, un comune di novemila abitanti, vicino a Rouen. Ordinato sacerdote nel 1958, padre Hamel non si era mai molto allontanat­o dalla sua Normandia, ma non ignorava le tragedie del mondo: «Che si possa noi, in momenti come questi, ascoltare l’invito di Dio a prenderci cura di questo mondo — esortava —, a farne, là dove viviamo, un mondo più fraterno». Forse non aveva capito che la guerra era arrivata anche dentro il suo piccolo mondo antico di parrocchia­ni che aveva sposato, dei quali aveva battezzato i figli e benedetto le esequie: «Non pensava che dare la sua vita per la parrocchia avrebbe voluto dire morire dicendo la messa», è sicuro il vicario dell’arcidioces­i, Philippe Maheut. Ma padre Hamel non si sarebbe tirato indietro.

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