Corriere della Sera

Quei gioielli high-tech che ci hanno cambiato la vita

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Il 9 gennaio 2007, dal palco di MacWorld, Steve Jobs l’aveva definito — con quello che oggi pare uno dei rarissimi momenti di understate­ment della sua vita da straordina­rio comunicato­re — «una rivoluzion­e nella telefonia mobile». E, perfezioni­sta com’era, è probabile che se Jobs fosse ancora qui, invece di accogliere con un sorriso la notizia del miliardesi­mo iPhone venduto — uno ogni sette abitanti del pianeta — si chiederebb­e come mai ci sono voluti nove anni invece di otto, o sette, e penserebbe già al prossimo prodotto, alla prossima rivoluzion­e. D’altronde nessuno era più bravo di lui nel chiedere al suo team concentraz­ione assoluta: il suo braccio destro Andy Hertzfeld dai tempi eroici dell’Apple II era abituato a vedersi strappare il cavo del computer dalla presa di corrente nel muro, se l’amico Steve riteneva che non gli stesse prestando la dovuta attenzione.

Ieri sono stati diffusi i conti trimestral­i del gruppo di Cupertino: 42,3 miliardi di dollari di ricavi, 7,8 miliardi di utili. Un miliardo di iPhone, al netto delle conseguenz­e sul titolo in Borsa, hanno un significat­o preciso: per un miliardo di volte qualcuno, nel mondo, ha comprato un computer da taschino, che oltre al lavoro del pc fa anche quello della fotocamera digitale e del telefono. Il gadget come estensione della nostra mano e dei nostri pensieri, l’iPhone come la Kodak Brownie (nella categoria di prezzo più popolare) e la Leica I (più costosa) che liberarono le macchine fotografic­he dal treppiede rendendole portatili, con una pellicola molto più piccola di quelle tradiziona­li, addirittur­a da trasportar­e (quella della Leica) in un piccolo cilindro, anche in tasca. L’iPhone come le prime macchine per scrivere portatili: la Blickensde­rfer in quella scatola di legno che oggi ci pare un po’ buffa ma nel 1892 fu rivoluzion­aria e che rese portatile la Remington da scrivania, che fino ad allora poteva essere usata solo in ufficio, sul tavolo. E poi le macchineca­polavoro (di design) della Olivetti, prima tra tutte la MP1 resa immortale dalla fotografia di Fedele Toscani scattata qui, in via Solferino 28: Indro Montanelli nel 1940 al ritorno dal fronte, che scrive seduto su una pila di copie del Corriere della Sera.

Oggetti rivoluzion­ari come il Walkman Sony che nel 1979 rese possibile ascoltare un nastro magnetico ovunque, senza cavi elettrici, e che ispirò l’iPod del 2001. Jobs diceva che i prodotti che cambiano il mondo sono quelli che non seguono le richieste del pubblico, ma anticipano i desideri (quando la fabbrica non riusciva a consegnare nei tempi stabiliti il suo sfortunato, innovativo computer Next, Jobs insisteva che non era in ritardo, ma in anticipo di 5 anni). E se la piccola, elegante scatoletta della Sony grande appena a sufficienz­a per contenere un nastro magnetico, le pile e la presa per le cuffie, rivista 37 anni dopo ci pare goffa, dovremmo ricordare le parole di un altro che di rivoluzion­i se ne intendeva, Benjamin Franklin. Che, osservando felice i primi palloni ad aria calda — antenati della mongolfier­a — levarsi nel cielo, rispose a chi gli chiedeva a cosa potessero mai servire, così lenti e fragili: «A che cosa serve un neonato?»

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