Corriere della Sera

I DANNI DEL LOCALISMO BANCARIO, ANACRONIST­ICO E CONTROPROD­UCENTE

- Di Mario Cera

Caro direttore, vicende e contingenz­e di questi ultimi giorni, insieme all’intervento di Ferruccio de Bortoli sul Corriere della Sera di domenica 10 luglio, stimolano o dovrebbero stimolare un dibattito serio e aperto sulle banche domestiche. In realtà, la lezione delle crisi bancarie dovrebbe toccare tutti gli attori del nostro sistema socio-economico, ma continua a mancare una analisi puntuale per capire come mai varie banche italiane (del Centronord peraltro) siano andate in crisi, senza cedere al vizio italico della rimozione o, se si vuole, dell’immediato vuoto di memoria.

Non si può trascurare che, dopo tanti anni in cui le crisi bancarie, anche per merito della vigilanza di Banca d’Italia, sono state sporadiche e quasi casuali, spesso dalle cause facilmente rinvenibil­i in fatti di cattiva gestione quando non proprio criminali, nell’ultimo periodo vi è stata una epidemia, un po’ come i conflitti di interessi che da sempre infestano il nostro sistema economico.

In primo luogo, non si può comunque trascurare che la situazione bancaria italiana non è generalmen­te critica, perché varie ed importanti sono le nostre banche gestite correttame­nte, solide e affidabili, nonché competitiv­e anche sul mercato europeo. Non è possibile fare nomi, ma addirittur­a alcune nostre banche sono «più avanti» della media delle banche europee, anche in termini di efficacia e di efficienza di governance, oltre che di good practice. Quindi, occorre evitare anche qui il costume domestico di omologare, rendere tutto indistinto, fare fasci d’erba, mettendovi, come un pessimo giardinier­e, anche fiori o piante, belli o rigogliose.

È certo, peraltro, che gran parte delle banche in crisi abbiano forti connotati localistic­i o, con una espression­e molto in voga, ma abusata, radicament­i territoria­li. Forse è il caso di interrogar­ci su questo eccessivo e ormai anacronist­ico localismo bancario, in una società afflitta, da secoli, da municipali­smo e particolar­ismo. Credo proprio che non sia più il momento di quello che de Bortoli ha definito «patriottis­mo locale», ma che occorra ripensare il modo di fare banca, nell’ottica di servire clienti, indistinta­mente intesi, nel modo migliore, al di là delle storie o delle logiche «residenzia­li» o territoria­li che siano. Si può, beninteso, ancora essere banca con dimensioni contenute, anzi il pluralismo è in sé una ricchezza, ma con la competitiv­ità, i gravosi oneri di gestione, le profession­alità richieste per una redditizia gestione sarà sempre più arduo che la mente, il motore, l’operativit­à di una banca davvero «sul mercato» restino confinati in ambiti socio-economico troppo ristretti. Utile potrebbe rivelarsi lo strumento della rete fra le imprese bancarie medio-piccole, soprattutt­o ove favorito dalla comparteci­pazione ad efficienti veicoli di servizi esternaliz­zati.

Il localismo può essere rischioso anche per i rapporti di reciproca convenienz­a tra banca e impresa. L’intreccio «interessat­o» tra banca e impresa tradiziona­lmente ha costituito fattore di gestioni azzardate o di favore (le crisi bancarie degli anni Venti e Trenta del Novecento lo hanno scolpito nella storia e anche nella legislazio­ne). Ma qui ci si deve porre, almeno, due domande: è possibile che vi sia una banca impermeabi­le od indifferen­te ai capitali d’investimen­to delle

imprese, quindi solo facendo ricorso a capitali finanziari diffusi, indistinti, volatili come quelli portati dai fondi, grandi e piccoli, sparsi nel mondo? E poi, non vi sono forse esperienze largamente positive di banche che hanno visto e vedono gruppi imprendito­riali o, con antico termine, industrial­i presenti nel capitale? In buona sostanza, vi sono banche e banche, ognuna con la sua strada e la sua storia. Come ha ben ricordato il Presidente Patuelli nella sua relazione all’Assemblea dell’Abi dell’8 luglio scorso va invece incoraggia­to «lo stabile azionariat­o, con grande realismo e senza utopie, mai dimentican­do i forti limiti del capitalism­o italiano».

Un capitolo a parte merita la questione della vigilanza o meglio delle vigilanze, perché sulle banche insistono almeno due Autorità: quella, quasi secolare ormai, bancaria e quella sui servizi di investimen­to (oltre che sui mercati), quest’ultima essendo la discussa (non da ora, invero) Consob. Indubbiame­nte, ed è una evidenza empirica, la lezione degli ultimi anni non è proprio confortant­e, almeno dal punto di vista dei risparmiat­ori o investitor­i che siano. Andrebbe, comunque, ripresa la discussion­e sulla opportunit­à di

Cortocircu­ito A rischio anche i rapporti di reciproca convenienz­a con l’impresa, un intreccio «interessat­o»

una doppia autorità di vigilanza sulle banche ovvero sulla esigenza di una vigilanza bancariofi­nanziaria univoca e a tutto tondo, che non potrebbe che essere quella, prudenzial­e, bancaria.

Certo, gioverà rammentare che la banca è un’impresa, ancorché diversa da altre, e che la sua attività continua ad avere risvolti sociali e di fiducia enormi e che vi è da tutelare quell’interesse generale di cui all’art. 47 Costituzio­ne; senza, però, tentazioni di ritorno, quali fan capolino nel dibattito odierno, alla banca pubblica, che in un contesto economico-istituzion­ale come quello attuale sarebbe non solo regressivo, ma forse disastroso, con probabile eterogenes­i dei fini.

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