I DANNI DEL LOCALISMO BANCARIO, ANACRONISTICO E CONTROPRODUCENTE
Caro direttore, vicende e contingenze di questi ultimi giorni, insieme all’intervento di Ferruccio de Bortoli sul Corriere della Sera di domenica 10 luglio, stimolano o dovrebbero stimolare un dibattito serio e aperto sulle banche domestiche. In realtà, la lezione delle crisi bancarie dovrebbe toccare tutti gli attori del nostro sistema socio-economico, ma continua a mancare una analisi puntuale per capire come mai varie banche italiane (del Centronord peraltro) siano andate in crisi, senza cedere al vizio italico della rimozione o, se si vuole, dell’immediato vuoto di memoria.
Non si può trascurare che, dopo tanti anni in cui le crisi bancarie, anche per merito della vigilanza di Banca d’Italia, sono state sporadiche e quasi casuali, spesso dalle cause facilmente rinvenibili in fatti di cattiva gestione quando non proprio criminali, nell’ultimo periodo vi è stata una epidemia, un po’ come i conflitti di interessi che da sempre infestano il nostro sistema economico.
In primo luogo, non si può comunque trascurare che la situazione bancaria italiana non è generalmente critica, perché varie ed importanti sono le nostre banche gestite correttamente, solide e affidabili, nonché competitive anche sul mercato europeo. Non è possibile fare nomi, ma addirittura alcune nostre banche sono «più avanti» della media delle banche europee, anche in termini di efficacia e di efficienza di governance, oltre che di good practice. Quindi, occorre evitare anche qui il costume domestico di omologare, rendere tutto indistinto, fare fasci d’erba, mettendovi, come un pessimo giardiniere, anche fiori o piante, belli o rigogliose.
È certo, peraltro, che gran parte delle banche in crisi abbiano forti connotati localistici o, con una espressione molto in voga, ma abusata, radicamenti territoriali. Forse è il caso di interrogarci su questo eccessivo e ormai anacronistico localismo bancario, in una società afflitta, da secoli, da municipalismo e particolarismo. Credo proprio che non sia più il momento di quello che de Bortoli ha definito «patriottismo locale», ma che occorra ripensare il modo di fare banca, nell’ottica di servire clienti, indistintamente intesi, nel modo migliore, al di là delle storie o delle logiche «residenziali» o territoriali che siano. Si può, beninteso, ancora essere banca con dimensioni contenute, anzi il pluralismo è in sé una ricchezza, ma con la competitività, i gravosi oneri di gestione, le professionalità richieste per una redditizia gestione sarà sempre più arduo che la mente, il motore, l’operatività di una banca davvero «sul mercato» restino confinati in ambiti socio-economico troppo ristretti. Utile potrebbe rivelarsi lo strumento della rete fra le imprese bancarie medio-piccole, soprattutto ove favorito dalla compartecipazione ad efficienti veicoli di servizi esternalizzati.
Il localismo può essere rischioso anche per i rapporti di reciproca convenienza tra banca e impresa. L’intreccio «interessato» tra banca e impresa tradizionalmente ha costituito fattore di gestioni azzardate o di favore (le crisi bancarie degli anni Venti e Trenta del Novecento lo hanno scolpito nella storia e anche nella legislazione). Ma qui ci si deve porre, almeno, due domande: è possibile che vi sia una banca impermeabile od indifferente ai capitali d’investimento delle
imprese, quindi solo facendo ricorso a capitali finanziari diffusi, indistinti, volatili come quelli portati dai fondi, grandi e piccoli, sparsi nel mondo? E poi, non vi sono forse esperienze largamente positive di banche che hanno visto e vedono gruppi imprenditoriali o, con antico termine, industriali presenti nel capitale? In buona sostanza, vi sono banche e banche, ognuna con la sua strada e la sua storia. Come ha ben ricordato il Presidente Patuelli nella sua relazione all’Assemblea dell’Abi dell’8 luglio scorso va invece incoraggiato «lo stabile azionariato, con grande realismo e senza utopie, mai dimenticando i forti limiti del capitalismo italiano».
Un capitolo a parte merita la questione della vigilanza o meglio delle vigilanze, perché sulle banche insistono almeno due Autorità: quella, quasi secolare ormai, bancaria e quella sui servizi di investimento (oltre che sui mercati), quest’ultima essendo la discussa (non da ora, invero) Consob. Indubbiamente, ed è una evidenza empirica, la lezione degli ultimi anni non è proprio confortante, almeno dal punto di vista dei risparmiatori o investitori che siano. Andrebbe, comunque, ripresa la discussione sulla opportunità di
Cortocircuito A rischio anche i rapporti di reciproca convenienza con l’impresa, un intreccio «interessato»
una doppia autorità di vigilanza sulle banche ovvero sulla esigenza di una vigilanza bancariofinanziaria univoca e a tutto tondo, che non potrebbe che essere quella, prudenziale, bancaria.
Certo, gioverà rammentare che la banca è un’impresa, ancorché diversa da altre, e che la sua attività continua ad avere risvolti sociali e di fiducia enormi e che vi è da tutelare quell’interesse generale di cui all’art. 47 Costituzione; senza, però, tentazioni di ritorno, quali fan capolino nel dibattito odierno, alla banca pubblica, che in un contesto economico-istituzionale come quello attuale sarebbe non solo regressivo, ma forse disastroso, con probabile eterogenesi dei fini.