Bisogna agire, senza aspettare l’esito del referendum istituzionale
ei prossimi giorni verranno pubblicati i risultati degli stress test effettuati sulle principali banche europee. Si tratta di un esercizio importante, oramai adottato in tutti i Paesi avanzati, che consente alle autorità di vigilanza di valutare periodicamente e in modo trasparente l’adeguatezza patrimoniale delle banche a fronte di shock imprevisti, di natura macroeconomica e finanziaria. Ciò consente anche alle banche di capire come intervenire in modo preventivo sulla propria gestione e sul modello di business per proteggere il capitale degli azionisti ed assicurare la sostenibilità dell’azienda.
Questo tipo di esercizio dovrebbe essere esteso ad altri settori dell’economia, in particolare alle finanze pubbliche. Consentirebbe ai risparmiatori e ai contribuenti di capire le implicazioni delle scelte di politica economica di un Paese, anche a fronte di sviluppi imprevisti della congiuntura internazionale. In effetti, da quando è stato adottato l’euro i Paesi membri devono includere nei loro programmi di stabilità pluriannuali delle simulazioni simili a quelle richieste alle banche, in cui si esamina la dinamica di medio periodo del deficit e del debito pubblico in caso di scenari alternativi. Tuttavia, questi esercizi attirano generalmente poca attenzione, anche se contengono analisi molto dettagliate.
Nell’ultimo Documento di Economia e Finanza italiano, pubblicato nell’aprile di quest’anno, vengono effettuati degli stress test sul debito pubblico sulla base di scenari non molto diversi da quello predisposto in questi giorni dalle autorità di vigilanza bancarie. Viene considerato il rischio di una possibile recessione nel prossimo triennio, di entità simile a quella del 2008-09 e un riacutizzarsi delle tensioni finanziarie, con aumento degli spread sui tassi d’interesse. In questo scenario, il rapporto tra il debito pubblico e il prodotto lordo dell’Italia salirebbe dal 132,7% nel 2015 ad oltre il 140% nel 2018, e continuerebbe a crescere negli anni successivi. In altre parole, in caso di nuova recessione il debito rischia di aumentare in modo insostenibile. Anche in assenza di recessione, l’inversione della dinamica ascendente del debito viene rinviata nel tempo e si basa su ipotesi di crescita economica e di inflazione che sembrano un po’ troppo ottimistiche.
Lo scenario considerato è estremo, come nel caso degli stress test bancari, ma non se ne possono ignorare le implicazioni. D’altra parte, l’attuale configurazione dell’economia mondiale — dalla Brexit al rallentamento dei Paesi emergenti come il Brasile, la Russia e la Cina, le incertezze geopolitiche e la fragilità dei mercati finanziari — non consente di escludere il rischio di un deterioramento della congiuntura.
Il pericolo maggiore, come nel caso del sistema bancario, è quello di minimizzare il problema. Eppure questa tentazione sembra assai diffusa nel nostro Paese. C’è chi ritiene ad esempio che un debito al 140% del Pil non sia poi così elevato, in confronto al 250% del Giappone, dimenticandosi però che in quest’ultimo caso esso è detenuto interamente dai residenti (e per oltre la metà dalla Banca del Giappone). Peraltro, l’onere del debito Giapponese (2% del Pil nel 2015) è meno della metà di quello italiano (4,2%), ed è denominato in valuta nazionale. Altri sostengono poi che gli acquisti effettuati dalla Bce (il quantitative easing) consentono di emettere debito senza troppi problemi, dimenticandosi che questa politica non è eterna (e quando finirà se ne sentiranno i dolori). Nemmeno le banche commerciali, che dispongono oggi di ampia liquidità, possono acquistare titoli pubblici senza tener conto del profilo di rischio del loro bilancio, anche in situazioni di stress. C’è poi chi considera che il debito pubblico, se troppo elevato, possa essere facilmente rinegoziato o ristrutturato, dimenticandosi che esso rappresenta la controparte del risparmio investito da milioni di famiglie italiane, assicurazioni, fondi pensione e banche, che verrebbero messe in ginocchio da una tale manovra, come si è visto in Grecia.
In queste condizioni, non ci si può permettere il lusso di ignorare il problema. Non lo ignorano certo i nostri partner europei; il nostro debito rappresenta uno dei principali ostacoli ad una maggiore integrazione. D’altro canto, la dinamica del debito non può essere lasciata al contesto macroeconomico più o meno favorevole. Richiede una strategia attiva. L’esperienza del 2012-13 dimostra che la recessione è il momento peggiore per mettere in atto azioni correttive di finanza pubblica. L’esperienza del 2014-16 dimostra che aumentare il debito non genera una crescita sufficiente per poter poi ridurre quel debito nel tempo.
Se non riparte con forza l’agenda delle riforme strutturali, indipendentemente e senza aspettare l’esito del referendum costituzionale, il Paese rischia di ritrovarsi in una situazione simile a quella di qualche anno fa, e dover effettuare manovre restrittive nel momento peggiore. Il problema del debito italiano si risolve solo aumentando il potenziale di crescita economico. Ossia dando una risposta credibile al dilemma di chi vuole, ma non riesce, ad investire in questo Paese, come quella giovane imprenditrice toscana, titolare di una impresa che esporta motori in 92 altri Paesi, che di recente mi ha spiegato: «Abbiamo aperto una fabbrica a Detroit (non in Cina!), perché in 3 mesi siamo riusciti ad avere tutte le autorizzazioni. Qui è da 7 anni che aspettiamo il via libera dall’amministrazione comunale». Se non si fanno subito le riforme strutturali (quelle vere), prima o poi si torna all’austerità. E non per colpa dell’Europa, ma solo nostra.