PIA PERA ADDIO: IL GIARDINO OLTRE LE PAROLE
Ha fatto in tempo a sorridere per la vittoria del Premio Rapallo, e poi Pia Pera ha chiuso per sempre i suoi bellissimi occhi verdi. La lenta e inesorabile catastrofe che si è compiuta si chiama malattia del «motoneurone». Il suo ultimo libro, Al giardino ancora non l’ho detto (Ponte alle Grazie), è il diario di un progressivo restringersi delle possibilità del corpo, fino alla quasi totale immobilità degli ultimi giorni, quando gli unici mezzi di comunicazione con gli amici erano rimasti i messaggi vocali di WhatsApp. È un libro indimenticabile, perché non elargisce nessuna panacea, nessuna saggezza in pillole, il male è il male, e per giunta nessuno ne sa veramente qualcosa, e la morte fa paura, perché mai non dovrebbe. Pia non è mai stata arrogante un giorno della sua vita, figuriamoci se lo diventava di fronte alla sua prova terminale, al grande enigma, al salto nel buio. Soprattutto di notte, ha paura.
Semmai, da grande lettrice di testi buddhisti e induisti, era allenata a spostare la prospettiva, a non identificarsi eccessivamente e unicamente con la percezione soggettiva, con l’Io insomma. È un lavoro difficile e incerto, ma a volte la «limpidezza dell’essere soli al mondo» si manifesta come uno squarcio di luce nella tempesta. E intorno a lei c’è il giardino, il suo ultimo capolavoro, presenza viva e benefica anche se non se ne può più occupare, costretta a contemplarlo dalla sedia a rotelle. È un luogo strano e bellissimo il giardino di Pia, nella campagna alle porte di Lucca, vera repubblica delle piante, gentile e selvatico nello stesso tempo, come possiamo immaginare gli scenari dei miti.
La scrittura sui giardini è un genere letterario molto difficile, nel quale Pia si è cimentata con tale bravura che il suo angolo di mondo è diventato celebre fra gli appassionati. L’efficacia di Pia sta nel trasmettere, al di là di tante informazioni e storie, il senso di una vocazione. Perché in effetti Pia, a un dato momento della propria vita, ancora nel fiore degli anni, aveva scelto il giardino, proprio come una volta si sceglieva di ritirarsi in un convento o partire per un viaggio senza ritorno in terre lontane.
Pia era una donna troppo libera e anticonformista per aderire completamente a qualcosa di collettivo come una fede o una filosofia della vita. Con allegria e infinita pazienza la sua religione se l’è piantata, coltivata, sarchiata. Tante cose nel frattempo Pia si era scrollata di dosso: senza mai abiurarle, perché tutte avevano avuto il loro significato transitorio. Ma dal punto di vista del giardino, è come se le cose del passato avessero meno peso. Quando la prendevo in giro ricordandole i suoi trascorsi di scrittrice erotica se non pornografica, lei comunque sorrideva. Una sua versione di Lolita dal punto di vista della protagonista le attirò le ire degli eredi di Nabokov. E poi, ovviamente, su un piano di impegno più lungo e continuato, ci sono i lavori di traduzione dal russo. Con la sua edizione di un testo mistico come La vita dell’arciprete Avvakum (Adelphi) rivelò un mondo spirituale di travolgente intensità: qualcosa di affine ai film di Andrej Tarkovskij, che Pia adorava e in effetti ha rappresentato, per la nostra generazione, l’idea stessa dell’artista supremo. Al culmine di questa attività di traduzione, metto la splendida coppia di eroi romantici: il Pecorin di Un eroe del nostro tempo (Oscar Mondadori) e l’Eugenio Onegin (Marsilio). Pia era contenta di tutto quello che aveva fatto, ma lo pesava sulla bilancia più infallibile che esista, che è quella del distacco. E ogni cosa che aveva imparato e che fino all’ultimo aveva continuato a imparare, ci arrivava accompagnata dal dono inestimabile del suo sorriso. Pia Pera aveva 60 anni: è mancata ieri