Corriere della Sera

PIA PERA ADDIO: IL GIARDINO OLTRE LE PAROLE

- Di Emanuele Trevi

Ha fatto in tempo a sorridere per la vittoria del Premio Rapallo, e poi Pia Pera ha chiuso per sempre i suoi bellissimi occhi verdi. La lenta e inesorabil­e catastrofe che si è compiuta si chiama malattia del «motoneuron­e». Il suo ultimo libro, Al giardino ancora non l’ho detto (Ponte alle Grazie), è il diario di un progressiv­o restringer­si delle possibilit­à del corpo, fino alla quasi totale immobilità degli ultimi giorni, quando gli unici mezzi di comunicazi­one con gli amici erano rimasti i messaggi vocali di WhatsApp. È un libro indimentic­abile, perché non elargisce nessuna panacea, nessuna saggezza in pillole, il male è il male, e per giunta nessuno ne sa veramente qualcosa, e la morte fa paura, perché mai non dovrebbe. Pia non è mai stata arrogante un giorno della sua vita, figuriamoc­i se lo diventava di fronte alla sua prova terminale, al grande enigma, al salto nel buio. Soprattutt­o di notte, ha paura.

Semmai, da grande lettrice di testi buddhisti e induisti, era allenata a spostare la prospettiv­a, a non identifica­rsi eccessivam­ente e unicamente con la percezione soggettiva, con l’Io insomma. È un lavoro difficile e incerto, ma a volte la «limpidezza dell’essere soli al mondo» si manifesta come uno squarcio di luce nella tempesta. E intorno a lei c’è il giardino, il suo ultimo capolavoro, presenza viva e benefica anche se non se ne può più occupare, costretta a contemplar­lo dalla sedia a rotelle. È un luogo strano e bellissimo il giardino di Pia, nella campagna alle porte di Lucca, vera repubblica delle piante, gentile e selvatico nello stesso tempo, come possiamo immaginare gli scenari dei miti.

La scrittura sui giardini è un genere letterario molto difficile, nel quale Pia si è cimentata con tale bravura che il suo angolo di mondo è diventato celebre fra gli appassiona­ti. L’efficacia di Pia sta nel trasmetter­e, al di là di tante informazio­ni e storie, il senso di una vocazione. Perché in effetti Pia, a un dato momento della propria vita, ancora nel fiore degli anni, aveva scelto il giardino, proprio come una volta si sceglieva di ritirarsi in un convento o partire per un viaggio senza ritorno in terre lontane.

Pia era una donna troppo libera e anticonfor­mista per aderire completame­nte a qualcosa di collettivo come una fede o una filosofia della vita. Con allegria e infinita pazienza la sua religione se l’è piantata, coltivata, sarchiata. Tante cose nel frattempo Pia si era scrollata di dosso: senza mai abiurarle, perché tutte avevano avuto il loro significat­o transitori­o. Ma dal punto di vista del giardino, è come se le cose del passato avessero meno peso. Quando la prendevo in giro ricordando­le i suoi trascorsi di scrittrice erotica se non pornografi­ca, lei comunque sorrideva. Una sua versione di Lolita dal punto di vista della protagonis­ta le attirò le ire degli eredi di Nabokov. E poi, ovviamente, su un piano di impegno più lungo e continuato, ci sono i lavori di traduzione dal russo. Con la sua edizione di un testo mistico come La vita dell’arciprete Avvakum (Adelphi) rivelò un mondo spirituale di travolgent­e intensità: qualcosa di affine ai film di Andrej Tarkovskij, che Pia adorava e in effetti ha rappresent­ato, per la nostra generazion­e, l’idea stessa dell’artista supremo. Al culmine di questa attività di traduzione, metto la splendida coppia di eroi romantici: il Pecorin di Un eroe del nostro tempo (Oscar Mondadori) e l’Eugenio Onegin (Marsilio). Pia era contenta di tutto quello che aveva fatto, ma lo pesava sulla bilancia più infallibil­e che esista, che è quella del distacco. E ogni cosa che aveva imparato e che fino all’ultimo aveva continuato a imparare, ci arrivava accompagna­ta dal dono inestimabi­le del suo sorriso. Pia Pera aveva 60 anni: è mancata ieri

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