Corriere della Sera

LA NAZIONALE DEI RIFUGIATI RAVVIVA LO SPIRITO OLIMPICO

A Rio ci sono dieci atleti di diversi Paesi uniti da una bandiera arancione e nera, come i giubbotti di salvaggio usati per soccorrere i migranti in mare Le loro storie sono una testimonia­nza e un messaggio di speranza in un tempo pieno di cattivi pensier

- di Ricardo Franco Levi

Forse li avrete notati, guardando ieri sera la cerimonia inaugurale delle Olimpiadi di Rio de Janeiro: sfilavano proprio davanti allo squadrone del Paese ospite, il Brasile, forte di ben 465 atleti.

Forse non vi sarete neppure accorti di loro: erano solo dieci e sfilavano dietro una bandiera con i cinque cerchi, una bandiera olimpica, e al suono dell’inno olimpico, gli unici tra gli atleti delle oltre duecento nazioni partecipan­ti ai Giochi a non poter marciare dietro la bandiera e a non poter cantare l’inno del proprio Paese. Perché quegli atleti il loro Paese l’hanno perduto.

Quel gruppo di dieci atleti — sei uomini, quattro donne: cinque dal Sudan del Sud, due dalla Siria, uno dall’Etiopia, due dalla Repubblica Democratic­a del Congo — erano i componenti della squadra olimpica dei rifugiati, i coraggiosi componenti della Nazione dei Rifugiati, la Refugee Nation.

«Citius, altius, fortius». «Più veloce, più in alto, più forte». Il buon barone de Coubertin ci aveva provato, con il suo motto, a marcare i Giochi in senso rigorosame­nte e unicamente sportivo. Ma altri valori e altre ragioni si sono fatti sempre strada, vuoi dal lato dei governi, vuoi da quello degli atleti, segnando la storia delle Olimpiadi.

Con Jesse Owens, il campione nero che guastò a Hitler lo spettacolo delle Olimpiadi del 1936. Con Tommy Smith e John Carlos che a Città del Messico, nel 1968, appena sei mesi dopo l’assassinio di Martin Luther King, sul podio dei 200 metri piani alzarono al cielo i pugni col guanto nero del movimento delle Pantere Nere. E, ancora, con l’esclusione dai giochi dal 1964 al 1992 del Sudafrica dell’Apartheid, con il boicottagg­io dei giochi di Mosca del 1980 e, quattro anni dopo, con il contro-boicottagg­io dei giochi di Los Angeles da parte dell’Unione Sovietica.

E l’Olimpiade di quest’anno per quali valori potrà essere ricordata? «Coloro che ci danno questa occasione non avranno da pentirsene» disse, sette anni fa, l’allora presidente del Brasile Lula da Silva quando ottenne di ospitare i Giochi nel suo Paese. Doveva essere il trionfo della nazione, come nel 2008 per la Cina a Shanghai. Ma il Brasile di oggi è in crisi profondiss­ima, economica, sociale, politica. E più che l’attesa per le gare pesano la vergogna del doping e la paura del terrorismo.

E allora, in questo stagione vuota di buoni messaggi ma piena di cattivi pensieri, forse è proprio a quei dieci atleti, alla Nazione dei Rifugiati, che dovremmo guardare per tro-

Contesto Il Brasile è in una crisi profonda e l’edizione è funestata dal doping e dall’allarme terrorismo Occasione Sarebbe bello vedere uno di questa squadra diventare protagonis­ta e salire sul podio

vare un’immagine, un messaggio, un impegno che meritino di restare come il segno di questi Giochi.

A questo hanno pensato un gruppo internazio­nale di giovani creativi del mondo della comunicazi­one che per questi atleti senza patria, e attraverso loro per gli oltre 60 milioni di rifugiati nel mondo, hanno voluto, da ultimo con il sostegno di Amnesty Internatio­nal, offrire una nazione, la Nazione dei Rifugiati, un inno, una bandiera. Una bandiera arancione e nera, cioè i colori dei giubbotti di salvataggi­o a cui i migranti affidano la loro esistenza attraversa­ndo il mare e i suoi pericoli in cerca di una nuova speranza di vita. Un giubbotto come quello indossato da Yara Said, l’artista siriana che ha disegnato la bandiera.

Sarebbe bello vedere uno di loro cingersi dopo una gara con quella bandiera.

Una come Yusra Mardini, 17 anni, nuotatrice, fuggita dalla sua Siria. Erano in venti, salpati dalla Turchia, su una barchetta fatta per sei persone, rimasta senza motore a mezza strada e spinta a nuoto, per tre ore e mezzo, fino quasi a morire, da Yusra e una sua compagna fino all’isola greca di Lesbo. Raggiunta la Germania, da un campo per rifugiati Yusra è riuscita ad arrivare a Berlino, a farsi accogliere in un circolo di nuoto e ad essere notata da un bravo allenatore. Oggi è a Rio.

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