I MESI DELL’ANSIA MA NESSUNA RESA
Èuno strano Ferragosto di ansia e di sole, di festa e di dubbio. Leggiamo che l’Isis stava cercando di costruire una rete a Milano (titolo e notizia del Corriere), ci preoccupiamo, ma non ci chiudiamo in casa: le città estive restano aperte. Esprimiamo il nostro senso di vuoto viaggiando lungo strade piene (sul Passante di Mestre, +34% rispetto al 2015). Ripercorriamo mesi sconcertanti tra montagne colorate di gente, di biciclette e di moto. Manifestiamo preoccupazione in spiagge affollate.
Non c’è contraddizione e non è rassegnazione. È una reazione: sana.
Ricorda la sensazione che si prova talvolta, quasi con imbarazzo, rientrando da un funerale. Ci prende uno strano, inconfessabile attivismo. L’impressione che occorra rispondere e ripartire, anche per chi non c’è più. Non è mancanza di rispetto. È saggezza preterintenzionale: alla morte si risponde con la vita.
È stato un anno spaventoso, finora, il 2016. La litania dell’orrore è fin troppo nota, e non serve ripeterla. Alla pianificazione sanguinaria degli islamisti sono seguiti fenomeni di emulazione, menti deboli plagiate da un’ideologia fanatica e grottesca. I media, nel tentativo doveroso di capire e spiegare, hanno rischiato di amplificare il messaggio dei nuovi mostri. Ma tacere è difficile, e censurare non è nella natura del giornalismo.
L’Italia che oggi festeggia Ferragosto non è superficiale. Ha deciso, invece, che queste ricorrenze sono la punteggiatura della nostra vita comune, senza la quale ogni discorso diventa impossibile.
La Nazione che si raccoglie in questo antico rituale estivo non ha dimenticato le preoccupazioni.
Tutti ci rendiamo conto che la produzione fatica e l’economia non cresce; tutti siamo consapevoli che i parassiti vivono tra noi (gratificati da stipendi importanti, nascosti in uffici eleganti); tutti sappiamo che l’immigrazione va gestita (non è possibile che migliaia di persone, cui è stato negato il diritto di asilo, spariscano nel nulla, preparando i ghetti e i disastri che verranno). Ma abbiamo deciso, istintivamente, di non mollare. Non possiamo darla vinta a chi ci odia, a chi disprezza la democrazia senza conoscerla.
Ci sono popoli che l’hanno imparato a loro spese. Chiunque sia stato in Israele, per esempio, lo percepisce. Una nazione oggettivamente assediata e costretta a prove continue — non conta, qui, decidere come vadano divise le responsabilità — è percorsa da una tensione positiva. La vita non demorde, dai locali di Tel Aviv ai mercati di Gerusalemme, dalle fattorie del deserto ai bar sul lungomare di Haifa. Diventa desiderio di fare, di sperimentare, di discutere. Diventa voglia di vivere.
Non si tratta di imbrogliare la morte; vuol dire, invece, imporle di stare al suo posto.
Sul Corriere ne abbiamo parlato più volte: l’obiettivo dei nostri nemici è diffondere il panico. Lasciarci spaventare significa concedergli una prima vittoria. Non deve accadere, non sta accadendo. La società aperta s’informa, ma non si lascia spaventare: è più bella, più forte, sempre nuova. La normalità — anche una spiaggia piena, anche una gita in montagna, anche un concerto in città — è la nostra arma più potente.
La sconfitta dell’Isis non avviene solo a Sirte, come ci racconta Lorenzo Cremonesi. La sconfitta dei nuovi barbari avviene ogni volta che uno di noi esce di casa, sale in automobile e fa quello che ha sempre fatto.