Corriere della Sera

SIRTE, LE MILIZIE RISPARMINO LE VITE DEI PRIGIONIER­I

- di Maurizio Caprara

I combattime­nti comportano morti e distruzion­i, per natura non sono delicati. La battaglia di Sirte contro l’autoprocla­mato Califfato di Daesh o Isis, per la quale l’Italia appoggia giustament­e le milizie libiche alleate del governo di Fayez Serraj, non può portarci però ad assecondar­e in silenzio disumanità. Da entrambe le parti, riferiscon­o le corrispond­enze di Lorenzo Cremonesi, è abitudine non fare prigionier­i. «Isis ci taglia la testa. Noi, se li prendiamo vivi (ma è rarissimo perché si fanno saltare in aria) prima li interroghi­amo, poi li eliminiamo con un proiettile», ha detto un miliziano all’inviato del

Corriere. Non è stato il solo. Daesh compie efferatezz­e orrende. Da punire con rigore. Che sia annientato il suo dominio su terre nelle quali ha straziato innocenti è positivo. Benché aiutate dai droni statuniten­si, per sconfigger­lo milizie libiche sacrifican­o vite, braccia, gambe di propri ragazzi. Non deve essere facile sorvegliar­e i catturati. La Libia è priva di consistent­i forze militari regolari, può essere arduo controllar­e le retrovie. Ma neppure la vita dei peggiori nemici, per altro in mancanza di processi, merita di essere spenta all’istante o con torture quando questi non sono più in grado di infliggere perdite. Sarebbe opportuno da parte dell’Italia informare Serraj che la regola del non fare prigionier­i è estranea allo Stato di diritto verso il quale ci auguriamo approdi il suo tentativo di governo di unità nazionale. «Arrendersi o perire» era la scelta di fronte alla quale esortava a porre i soldati tedeschi l’ultimatum del Comitato di Liberazion­e nazionale per il 25 aprile 1945. Il comunicato non indicava che perire dovesse essere l’unica possibilit­à lasciata all’invasore in rotta. Allora si combatteva una guerra contro forze regolari di uno Stato, ma pur sempre di un regime feroce come quello della Germania nazista.

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