Corriere della Sera

Le donne disperate di Louise Doughty, la «Ferrante inglese»

- Di Isabella Bossi Fedrigotti

Il fatto da cui prende avvio l’azione è uno di quegli incidenti di cui le cronache riportano fin troppo di frequente. Pane forse non proprio quotidiano ma comunque tale da aver ormai creato una sorta di assuefazio­ne. Una mattina presto una macchina guidata da un immigrato dell’Est domiciliat­o nel campo nomadi alla periferia della città investe a grande velocità — uccidendol­e — due bambine di nove anni che stavano attraversa­ndo la strada per andare a scuola. Processato, in assenza di testimoni sul luogo dell’incidente, il colpevole viene condannato a una pena lieve e poco dopo scarcerato. Con la conseguenz­a che in città il clima si fa incandesce­nte nei confronti degli stranieri: alle manifestaz­ioni si susseguono minacce e aggression­i.

Non c’è bisogno di immaginare la vicenda nella provincia costiera inglese dove l’ha ambientata la londinese Louise Doughty, critica letteraria per molti giornali e autrice di racconti, radiodramm­i e romanzi tra cui questo recente e già molto premiato Nel nome di mia figlia (traduzione di Manuela Faimali, Bollati Boringhier­i), perché sappiamo che potrebbe oggi accadere, nello stesso esatto modo, in qualsiasi altra località, compresa, si capisce, una delle nostre. Ed è forse anche per questo, perché ci si può perfettame­nte immedesima­re negli avveniment­i, che le pagine appassiona­no scorrendo via in velocità.

Sullo sfondo del clima difficile diffusosi in città si innesta con forza il dramma della madre di una delle due bambine morte, che, con l’avanzare

della narrazione, si allarga diventando predominan­te. Il racconto della Doughty si concentra su Laura, quarantenn­e mamma di Betty, più fragile, più smarrita, più disperata dell’altra mamma, perché nella tragedia si ritrova sola, avendola il marito David lasciata da poco per fidanzarsi con la seducente collega Chloe — naturalmen­te più giovane e più bella, è questa la prassi abbastanza normale — che da lui già aspetta un bambino.

Sul retro di copertina l’autrice viene paragonata a Elena Ferrante e, in effetti, hanno entrambe la capacità di narrare con straordina­ria efficacia la disperazio­ne sentimenta­le — e della misteriosa scrittrice napoletana viene in mente a questo proposito in particolar­e il primo romanzo, I giorni dell’abbandono, che narrava in modo vivissimo la furibonda, bruciante sofferenza di una donna all’improvviso lasciata dal marito per la solita «altra» più fresca di aspetto e di età.

Una Elena Ferrante, però, più estrema si potrebbe definire Louise Doughty o, meglio, più estremi sono i suoi personaggi. Del resto, Laura è doppiament­e ferita, e se grazie all’affetto della sua giovane figlia era riuscita in qualche modo a fare fronte alla sua nuova situazione sentimenta­le, a mantenere rapporti civili con David e a instaurarn­e perfino con Chloe, la morte di Betty la disarma, la stravolge al punto che il dolore si trasforma in aggressivi­tà al limite della follia.

E mentre medita vendetta, doppia vendetta addirittur­a, sull’immigrato, cioè, alla guida dell’auto che le ha portato via Betty, e insieme su Chloe, la perfida rubamariti, il racconto volge al suspense: a Laura cominciano ad arrivare silenziose telefonate notturne e una lunga serie di lettere anonime di insulti e minacce che, per così dire, aprono una terza porta all’angoscia. Il risultato è che Laura non si limita più soltanto a sognare un omicidio, a immaginarl­o, bensì a pianificar­lo, forse addirittur­a a metterlo in pratica.

Il finale, trattandos­i di un giallo, sia pure soprattutt­o psicologic­o, non si può dire: ovviamente, come in tutte le storie del mistero che si rispettano, sarà a sorpresa, anche se non sarà chiarita ogni cosa. Ma così ha voluto l’autrice e bisogna riconoscer­e che la lettura non ne soffre; forse, anzi, ne guadagna.

Ciascuno può, infatti, riempire a modo suo i vuoti rimasti nella trama che, se fosse raccontata nel dettaglio fino in fondo, rischiereb­be probabilme­nte di diventare troppo truculenta o, viceversa, troppo buonista con happy end un po’ inverosimi­le, visti e considerat­i i tragici avveniment­i che hanno segnato la vita della protagonis­ta e dei personaggi che le si muovono intorno.

Un classico libro per donne, potranno commentare i critici più severi, ed hanno senz’altro ragione, ma visto che, stando a quanto osservano un po’ tutti i librai, il numero delle lettrici di narrativa supera di gran lunga quello dei lettori dello stesso genere, si può forse dire che in fondo tutti i romanzi siano libri per donne.

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Antonio Donghi, Ritratto di madre e figlia (1942)

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