Le donne disperate di Louise Doughty, la «Ferrante inglese»
Il fatto da cui prende avvio l’azione è uno di quegli incidenti di cui le cronache riportano fin troppo di frequente. Pane forse non proprio quotidiano ma comunque tale da aver ormai creato una sorta di assuefazione. Una mattina presto una macchina guidata da un immigrato dell’Est domiciliato nel campo nomadi alla periferia della città investe a grande velocità — uccidendole — due bambine di nove anni che stavano attraversando la strada per andare a scuola. Processato, in assenza di testimoni sul luogo dell’incidente, il colpevole viene condannato a una pena lieve e poco dopo scarcerato. Con la conseguenza che in città il clima si fa incandescente nei confronti degli stranieri: alle manifestazioni si susseguono minacce e aggressioni.
Non c’è bisogno di immaginare la vicenda nella provincia costiera inglese dove l’ha ambientata la londinese Louise Doughty, critica letteraria per molti giornali e autrice di racconti, radiodrammi e romanzi tra cui questo recente e già molto premiato Nel nome di mia figlia (traduzione di Manuela Faimali, Bollati Boringhieri), perché sappiamo che potrebbe oggi accadere, nello stesso esatto modo, in qualsiasi altra località, compresa, si capisce, una delle nostre. Ed è forse anche per questo, perché ci si può perfettamente immedesimare negli avvenimenti, che le pagine appassionano scorrendo via in velocità.
Sullo sfondo del clima difficile diffusosi in città si innesta con forza il dramma della madre di una delle due bambine morte, che, con l’avanzare
della narrazione, si allarga diventando predominante. Il racconto della Doughty si concentra su Laura, quarantenne mamma di Betty, più fragile, più smarrita, più disperata dell’altra mamma, perché nella tragedia si ritrova sola, avendola il marito David lasciata da poco per fidanzarsi con la seducente collega Chloe — naturalmente più giovane e più bella, è questa la prassi abbastanza normale — che da lui già aspetta un bambino.
Sul retro di copertina l’autrice viene paragonata a Elena Ferrante e, in effetti, hanno entrambe la capacità di narrare con straordinaria efficacia la disperazione sentimentale — e della misteriosa scrittrice napoletana viene in mente a questo proposito in particolare il primo romanzo, I giorni dell’abbandono, che narrava in modo vivissimo la furibonda, bruciante sofferenza di una donna all’improvviso lasciata dal marito per la solita «altra» più fresca di aspetto e di età.
Una Elena Ferrante, però, più estrema si potrebbe definire Louise Doughty o, meglio, più estremi sono i suoi personaggi. Del resto, Laura è doppiamente ferita, e se grazie all’affetto della sua giovane figlia era riuscita in qualche modo a fare fronte alla sua nuova situazione sentimentale, a mantenere rapporti civili con David e a instaurarne perfino con Chloe, la morte di Betty la disarma, la stravolge al punto che il dolore si trasforma in aggressività al limite della follia.
E mentre medita vendetta, doppia vendetta addirittura, sull’immigrato, cioè, alla guida dell’auto che le ha portato via Betty, e insieme su Chloe, la perfida rubamariti, il racconto volge al suspense: a Laura cominciano ad arrivare silenziose telefonate notturne e una lunga serie di lettere anonime di insulti e minacce che, per così dire, aprono una terza porta all’angoscia. Il risultato è che Laura non si limita più soltanto a sognare un omicidio, a immaginarlo, bensì a pianificarlo, forse addirittura a metterlo in pratica.
Il finale, trattandosi di un giallo, sia pure soprattutto psicologico, non si può dire: ovviamente, come in tutte le storie del mistero che si rispettano, sarà a sorpresa, anche se non sarà chiarita ogni cosa. Ma così ha voluto l’autrice e bisogna riconoscere che la lettura non ne soffre; forse, anzi, ne guadagna.
Ciascuno può, infatti, riempire a modo suo i vuoti rimasti nella trama che, se fosse raccontata nel dettaglio fino in fondo, rischierebbe probabilmente di diventare troppo truculenta o, viceversa, troppo buonista con happy end un po’ inverosimile, visti e considerati i tragici avvenimenti che hanno segnato la vita della protagonista e dei personaggi che le si muovono intorno.
Un classico libro per donne, potranno commentare i critici più severi, ed hanno senz’altro ragione, ma visto che, stando a quanto osservano un po’ tutti i librai, il numero delle lettrici di narrativa supera di gran lunga quello dei lettori dello stesso genere, si può forse dire che in fondo tutti i romanzi siano libri per donne.