I CANONI STRAVOLTI DA TRUMP
Per i giornalisti il momento è difficile: il candidato repubblicano ha spazzato via le regole della corretta informazione. Dopo di lui nulla sarà più come prima. Come trattare un fenomeno così anomalo? Se il «tycoon» mette in pericolo le istituzioni, come
Truffatori, corrotti, disgustosi. E poi, addirittura, «la più bassa forma di vita sulla Terra». Donald Trump non risparmia insulti alla stampa che accusa durante ogni comizio puntando il dito contro la tribuna dei giornalisti. È stata la sua tecnica fin dall’inizio: sparare sul messaggero per far risaltare di più il messaggio. E, infatti, tra un insulto e l’altro, ha concesso interviste-fiume ai nemici dei «media».
Nel mondo degli affari, e poi in tv, il miliardario ha imparato che la pubblicità, anche se negativa, rende sempre. È così che ha vinto le primarie, sbaragliando gli avversari. Dopo la nomination, però, la musica è cambiata: i trucchi da avanspettacolo e la retorica che manda in visibilio gli «ultrà» non bastano più. Lui ha perso la bussola: detestando i toni «presidenziali», ha trasferito il suo linguaggio politicamente scorretto anche su terreni molto delicati come l’uso delle armi nucleari, il rapporto con la Russia di Putin, la riabilitazione postuma di dittatori feroci. Poi le incredibili sortite della scorsa settimana: Obama fondatore dell’Isis e l’ipotesi (poi smentita) di fermare con la violenza Hillary Clinton e la Corte Suprema se tentassero di fissare limiti per le armi da fuoco.
I «media» criticano le sue iperboli pericolose, lui tira dritto: «Il mio avversario non è la truffatrice Hillary, ma la stampa “liberal” imbrogliona. Se perdo è colpa dei giornalisti». Non è vero.
Lo scrive anche l’arciconservatore Wall Street Journal: «La stampa “liberal” lo vuole sconfitto, ma era così anche per i due presidenti Bush e per Reagan. La differenza è che Trump fa di tutto per rendersi vulnerabile agli attacchi».
Ma anche per i giornalisti il momento è difficile: il ciclone Trump ha spazzato via i canoni della corretta informazione. Dopo di lui nulla sarà più come prima.
Come trattare un fenomeno politico così anomalo? Se il «tycoon» mette in pericolo le istituzioni o istiga alla violenza, come si fa a mantenersi obiettivi? E come ci si deve regolare con la democratica Hillary Clinton i cui errori e i cui scandali passano in secondo piano davanti agli spettacoli pirotecnici continuamente messi in scena da Trump?
Per molti, nel mondo dei «media», il candidato repubblicano è diventato un caso di coscienza da vari punti di vista: intanto la sensazione di essersi prestati, inizialmente, a un gioco al massacro nel quale Trump ha fatto il burattinaio della stampa che lo inseguiva disgustata dalle cose che diceva, ma non dalle masse di spettatori e lettori che si conquistavano aprendo giornali, tg e «talk show» sulle peripezie di «The Donald». In fondo nelle primarie l’immobiliarista che nessuno aveva preso sul serio ha demolito candidati seri e rispettati come John Kasich, Marco Rubio e Jeb Bush affidandosi solo alla stampa (soprattutto progressista) e ai suoi dibattiti: lui non ha ancora speso quasi nulla in pubblicità elettorale.
Adesso che, cominciata la corsa a due verso la Casa Bianca, il gioco si fa duro, i «media» si sentono meno strumentalizzati, visto che Trump sta precipitando nei sondaggi. Stavolta la stampa c’entra poco: è lui che non riesce a reprimere i suoi istinti naturali nonostante le pressioni dei consiglieri e del partito che cercano di tenere la campagna su binari ragionevoli.
Intanto, però, l’anomalia Trump, un fenomeno senza precedenti, sta avendo effetti tragici sul sistema informativo anche per lo stravolgimento dei canoni dell’obiettività, considerati sacri nel giornalismo americano: come si fa a essere equidistanti quando ci si convince che un candidato che non esclude il ricorso alle armi nucleari («perché le costruiamo se non vanno usate?») è un pericolo pubblico? E come ci si deve regolare con uno che dopo l’affermazione «choc» — «Obama fondatore dell’Isis» — non corregge il tiro nemmeno quando un conduttore di destra gliene offre la possibilità? E che quando, tre giorni dopo, lo fa («non capiscono nemmeno quando sono sarcastico»), aggiunge subito dopo: «Comunque, per dirla tutta, non è che fossi poi così sarcastico»?
L’amara verità è che Trump ha stravolto canoni non solo professionali ma anche etici. E lascerà terra bruciata dietro di sé anche se il «trumpismo» dovesse finire in soffitta dopo una sua netta sconfitta elettorale. Quanto possono essere obiettivi i giornalisti che, additati con nome e cognome da Trump al disprezzo della platea, vengono scortati dagli agenti del servizio segreto fuori dall’arena di un comizio per evitare guai peggiori? O il team della Cnn assalito da un anziano e distinto fan di Donald al grido: «Io sono un patriota, voi siete dei traditori»?
E ancora: un politico è responsabile solo di ciò che fa e dice, o anche degli effetti che le sue parole incendiarie possono provocare? Quando Trump ha buttato lì la battuta sulla possibilità che il «partito delle armi» difenda a modo suo il diritto ad armarsi senza limiti, Tom Friedman ha fatto notare che vent’anni anni fa in Israele furono scintille simili a portare alla morte del premier dialogante Yitzhak Rabin, assassinato da un estremista sionista. E, in varie realtà locali, ci sono segnali di un ritorno del bullismo nelle scuole: stavolta di ragazzi bianchi che se la prendono coi figli di immigrati inneggiando al muro di Trump.
Ma il quesito forse più angoscioso di tutti è: a segnalare e denunciare certe espressioni aberranti del miliardario si rende un servizio alla comunità o si eccitano ancor più gli animi? La stampa non può rinunciare alla sua funzione civile, raccontando e facendo tutte le distinzioni del caso. Ma poi è dura sentire gente che prende sul serio la complicità di Obama ed Hillary con l’Isis solo perché «se ne parla tanto» o ascoltare — come è capitato a chi scrive — i musulmani della moschea di Ozone Park a Queens. Sconvolti dall’assassinio del loro imam, sono arrabbiati con Trump, ma anche con la stampa che dà spazio alla sua retorica islamofobica.