Corriere della Sera

LE IMPRESE E I TIMORI DI TROPPO

Il mercato, la fiducia Gli imprendito­ri non dovrebbero sfuggire a qualche serena autocritic­a. Non sembrano così impegnati nel ridurre i sussidi pubblici che distorcono la concorrenz­a. Non suscita alcun sincero dibattito la scelta di chi trasferisc­e sede l

- Di Ferruccio de Bortoli

La prossima legge di Stabilità riserverà probabilme­nte una maggiore attenzione agli investimen­ti e alla produttivi­tà. I primi sono al livello storico più basso in proporzion­e al Pil, il Prodotto interno lordo, il 29 per cento in meno rispetto al 2008. La seconda è stagnante da anni. L’illusione che bonus e incentivi rianimasse­ro i consumi interni è svanita nell’aridità impietosa dei numeri. La crescita zero è uno spettro inquietant­e, anche se non è da buttare lo 0,7 per cento guadagnato in un anno. Dopo la Seconda guerra mondiale, la produzione industrial­e tornò, già nel ‘48, ai livelli del ‘39. Oggi, rispetto al 2008, siamo sotto di oltre il 20 per cento. Le stime sul dato di luglio non sono incoraggia­nti. Si studiano, con acribia lodevole, stimoli di vario tipo — come la conferma del super ammortamen­to al 140 per cento e la riduzione dell’Ires — finalmente consapevol­i che la strada migliore sia quella di alleggerir­e il carico fiscale su lavoro e ricerca. E ridare vigore agli investimen­ti pubblici frenati tra l’altro dall’incerta applicazio­ne del nuovo codice degli appalti. La flessibili­tà di bilancio, che forse avremo in più dalla Commission­e europea, è meglio destinarla alla creazione futura di reddito e lavoro, e non a rastrellar­e qualche costoso consenso in più. Senza dimenticar­ci che sotto la veste attraente della parola flessibili­tà si nasconde la sgradevole­zza del deficit aggiuntivo. Preferiamo tutti, nessuno escluso, respirare a pieni polmoni la libertà di movimento strappata a Bruxelles. Come se ci fossimo sottratti al giogo di catene ingiuste. Incuranti del fatto che non riscuotiam­o alcun credito.

I

l debito rischia di rimanere, dopo nove anni di aumento, inchiodato al 133 per cento del Pil. Sembra più leggero perché c’è qualcuno che ci presta soldi anche a tasso negativo (il 32 per cento del totale dei titoli emessi). Non per merito nostro, ma grazie alla politica monetaria della Bce. La trappola psicologic­a è insidiosa. Se qualcuno mi paga perché io prenda i suoi soldi, perché dovrei spendere di meno? E infatti la spesa pubblica, al netto degli interessi, aumenta seppur di poco.

L’impresa rivendica giustament­e una maggiore consapevol­ezza del fatto che il futuro dell’economia italiana è strettamen­te legato ai destini della sua industria manifattur­iera, specie nella prospettiv­a digitale (l’Internet delle cose) con l’avvento massiccio della robotica. Quel quarto di aziende competitiv­e e internazio­nalizzate di cui parlava sul Corriere del 13 agosto Dario Di Vico non ha problemi. Ha il futuro in mano. Un quarto lo ha perduto. Le altre vanno aiutate al massimo, pur sapendo che un’evoluzione della specie è necessaria. Le aziende nascono e muoiono. Le respirazio­ni artificial­i sono dannose per tutti. Luca Paolazzi (Centro studi Confindust­ria) ha segnalato, in un suo recente lavoro, l’eccezional­e, e mai verificata­si in passato, differenza di profittabi­lità tra le aziende. Un divario enorme. Le migliori, come testimonia l’ultima ricerca di Mediobanca, hanno offerto risultati superiori al previsto. Ma ciò non si riflette del tutto sui valori di Borsa che vedono molti titoli quotati a forte sconto. Le aziende e le banche meglio patrimonia­lizzate e con una buona redditivit­à pagano un premio al rischio Paese e alla sua crescita bloccata. Ma non sfuggono al radar di gruppi e fondi internazio­nali che ne intravvedo­no le potenziali­tà, oltre che gli spazi speculativ­i.

Il paradosso di questa situazione è che gli stranieri appaiono più fiduciosi degli stessi investitor­i italiani. Loro acquistano a mani basse, noi siamo più timorosi. Molte tra le famiglie che hanno venduto le loro partecipaz­ioni industrial­i preferisco­no farsi gestire i capitali investendo in tutto il mondo e magari affidandos­i alle stesse banche che scommetton­o contro il nostro Paese. Tutto legittimo, per carità. Ma la sfiducia implicita di chi si ritira contrasta con la determinaz­ione lodevole di chi continua a rischiare. Per fortuna tantissimi. Una contraddiz­ione che dovrebbe sollevare qualche discussion­e anche tra gli imprendito­ri. Invece domina il silenzio. Paolo Panerai su Milano Finanza ha lanciato un appello ai gestori del risparmio italiano (1.900 miliardi) a investire di più nelle aziende del proprio Paese. Basterebbe, per esempio, destinare l’uno per cento del patrimonio gestito all’acquisto di titoli bancari per sottrarre l’intero settore a una condizione di umiliante svendita. La proposta è suggestiva. E, al di là della sua praticabil­ità, ha il merito di porre l’attenzione sulla necessità di creare un vero mercato dei capitali alternativ­o ai finanziame­nti bancari, dopo i fallimenti dell’Aim (la Borsa per le piccole e medie imprese) e dei mini bond. E segnala il paradosso italiano: grandi patrimoni, che fanno gola ai fondi internazio­nali, e pochi investimen­ti in Italia.

Gli imprendito­ri hanno meriti eccezional­i ma non dovrebbero sfuggire, come classe dirigente, a qualche serena autocritic­a. Non sembrano così impegnati nel ridurre i sussidi pubblici alle imprese che distorcono la concorrenz­a. Non suscita alcun sincero dibattito la scelta di chi trasferisc­e sede legale e fiscale all’estero pur continuand­o a sventolare la propria italianità. Non vi è, tranne rari casi, una discussion­e meno rituale sul modello industrial­e del futuro.

L’economista Pierluigi Ciocca, sull’ultimo numero di Economia Italiana, sostiene che la produttivi­tà stagnante, non è più colpa di costi e salari. Dipende dal fatto che molte delle nostre produzioni, pur profittevo­li, non siano più lungo la frontiera dell’innovazion­e e del progresso tecnologic­o, capaci di far avanzare l’intera economia. E, citando Carlo Maria Cipolla, Ciocca conclude che non siamo più in grado, come un tempo, di «produrre molte cose nuove che piacciono al mondo». Esagera? Probabilme­nte sì ma parlarne di più non sarebbe inutile. Un Paese non cresce con l’ipocrisia e i luoghi comuni.

Crescita bloccata Le aziende e le banche meglio patrimonia­lizzate pagano un premio al rischio Paese Visione Non vi è, tranne rari casi, una discussion­e meno rituale sul modello industrial­e del futuro

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