Corriere della Sera

Nella favela degli esclusi «Qui soltanto il calcio è vita»

Nella «Cidade de Deus» lo sport è uno solo: il calcio «Il volley è da spiaggia, noi il mare non lo vediamo»

- Di Aldo Cazzullo

In attesa della partita, la tv trasmette il concorso ippico. Al bar della favela guardano gli stivali e i berretti dei cavalieri con gli occhi sbarrati. «Secondo te qualcuno qui sa cos’è il dressage? Ha mai giocato a badminton? Conosce le regole del taekwondo?». Però l’atletica… «L’atletica qui è la corsa per scappare dalla polizia. Il calcio è un’altra cosa. Il calcio coincide con la vita. Cominci a 3 anni, smetti quando muori». L’Olimpiade è dall’altra parte del muro. Siamo nella Cidade de Deus, la Città di Dio: una chiazza di casette e baracche lungo l’autostrada che collega il parco olimpico alla spiaggia di Barra, la più chic di Rio.

L’Olimpiade sono le auto e i bus che passano: ognuno fa tremare le pareti. Il leader della comunità, José Carlos de Paula Lopes detto Zezé, è l’ex portiere del Fluminense. Un incidente lo costrinse alla cassa di un supermerca­to. In una rapina fu ferito da cinque colpi di pistola. Ora, con l’aiuto di ActionAid, ha fondato una scuola di calcio, e il quartiere si ritrova attorno a lui per vedere la semifinale dei Giochi: Brasile-Honduras.

Il Bar Tricolor non si chiama così per motivi patriottic­i. I tre colori non sono quelli della bandiera nazionale ma il viola, il verde e il bianco del Fluminense. Traffico quasi fermo. Cani mansueti, come i cani dei poveri. Atmosfera di tensione. C’è il disastroso Mondiale del 2014 da riscattare, e la tv continua a trasmetter­e immagini di atlete brasiliane in lacrime: hanno perso sia le pallavolis­te sia le calciatric­i. Spiega però Zezé che «qui del volley non importa a nessuno. È uno sport da spiaggia; e il mare noi non lo vediamo». La Selecao femminile invece è popolariss­ima: nella favela le donne sono più numerose degli uomini, che tendono a fare figli e a sparire.

Il Brasile non ha una cultura sportiva; ha una cultura calcistica. «Il francese del salto con l’asta non deve offendersi. Nel calcio è normale fischiare l’avversario. Per questo l’abbiamo fatto quando serviva Del Potro, che è argentino, e lo faremo quando batterà il vostro Lupo nella finale del beach-volley».

L’avvio non potrebbe essere

più vivace: Neymar vince quattro rimpalli, segna dopo 15 secondi e si fa male. Esultanza e preoccupaz­ione, ricordando l’infortunio ai Mondiali, la vertebra rotta. Qui fuori c’è un parrucchie­re specializz­ato nel fare la cresta come Neymar ai bambini per cinque reais, un euro e mezzo. Dice però Zezé che il Brasile ha avuto ben altri giocatori: «Zico e Ronaldinho sì che erano veri numeri 10». Zico e Ronaldinho sono carioca, Neymar è paulista.

Carioca, e del quartiere, è la prima medaglia d’oro del Brasile ai Giochi: Rafaela Silva. Ha imparato il judo grazie al progetto sociale Reaçao, Reazione. «La sua casa è a tre isolati dal bar, anche sua sorella Raquel è stata una brava judoka — racconta Zezé —. Poi però sono andate ad allenarsi negli Stati Uniti». La vittoria è stata festeggiat­a. «Ma la gente della favela si sente esclusa dai Giochi. Per il quartiere non hanno fatto nulla. Mancano scuole, abbiamo un ambulatori­o per 65 mila abitanti, ci sono code di giorni». Non è solo questione di opere pubbliche. «Gli organizzat­ori non hanno neppure provato a coinvolger­e i ragazzi. Molti si erano offerti come volontari; non li hanno voluti perché non sanno le lingue. Altri hanno provato a vendere qualcosa fuori dal parco; la polizia li ha fatti sloggiare. Siamo vissuti come un problema». I guastafest­e. I cattivi pensieri.

Un blackout che spegne la tv è accolto con fatalismo: prima o poi la luce tornerà. Le volontarie di ActionAid, guidate dal responsabi­le italiano Marco De Ponte, sono ragazze dei quartieri borghesi, molto benvolute: di solito i ricchi vengono qui solo per comprare droga, ma la ricevono più volentieri a domicilio. Tante donne lavorano come domestiche nei grattaciel­i di Barra: hanno la disposizio­ne di non prendere mai l’ascensore principale ma quello di servizio. Ogni tanto il governo tenta di sgomberare tutto, ogni volta gli abitanti ritornano. Nel vicolo si sentono raspare le galline, sorvolate da un elicottero della polizia.

La polizia militare ha soppiantat­o la «policia pacificado­ra», che doveva dialogare e non solo sparare; lo Stato ha finito i soldi. L’Honduras non è un avversario formidabil­e e il match diventa festa; semmai preoccupa la finale e lo spettro dei tedeschi. Nell’attesa i ragazzi vanno al campetto a organizzar­e una partita 20 contro 20. Altri hanno il corso di karate e di capoeira. «Scriva che nella favela abitano soprattutt­o persone normali, che non vanno criminaliz­zate — dice Zezé —. Purtroppo è quello che sta succedendo. Siamo

vissuti come il lato oscuro dell’Olimpiade». Che è diventata un altro simbolo d’esclusione, di cui non si sentiva proprio la mancanza. «Quando nel 2007 fecero i Panamerica­ni, quel che rimase a noi furono le scarpe che non andavano bene agli atleti. Vedremo cosa resterà di Rio 2016».

A Roma non ci sono favelas. Ma periferie disagiate esistono anche nella capitale italiana. Chiunque voglia organizzar­e in futuro le Olimpiadi, dovrà tener conto che la città va coinvolta, tutta.

Strutture assenti Giochi poco utili: mancano scuole e un ambulatori­o per 65 mila persone L’aiuto di Action Aid Zezé, ex portiere Fluminense, ferito da 5 colpi di pistola, guida di una scuola calcio

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Cuore verdeoro Il Brasile ieri ha fatto felici i suoi tifosi

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