Corriere della Sera

Il complicato accesso alle fonti

DIRITTO

- Di Luigi Ferrarella

Chi nel giornalism­o propugna un sempre maggiore diritto di accesso alle fonti (giudiziari­e comprese), come antidoto ai guasti del mercato nero delle notizie, incassa ora il no del Consiglio di Stato.

«Non si ravvisa nell’articolo 21 della Costituzio­ne il fondamento di un generale diritto di accesso alle fonti notiziali, al di là del concreto regime normativo che di volta in volta, e nell’equilibrio dei molteplici e talvolta non conciliabi­li interessi in gioco, regolano tal accesso».

Giù la saracinesc­a. Chi nel giornalism­o da tempo propugna l’omeopatia di un sempre maggiore diritto di accesso alle fonti (comprese quelle giudiziari­e) come antidoto ai guasti del mercato nero delle notizie in mano altrimenti a chi possieda il potere di aprirne o chiuderne il rubinetto, deve incassare il no che arriva da una interessan­te pronuncia del Consiglio di Stato. A detta del quale «occorre evitare ogni generalizz­azione sul rapporto tra diritto d’accesso» agli atti e «libertà di informare». Perché «il diritto di accesso» non sarebbe «il presuppost­o necessario della libertà d’informare», ma sarebbe vero «l’esatto opposto: é il riconoscim­ento giuridico della libertà di informare che, in base alla concreta regolazion­e del diritto di accesso, diviene il presuppost­o di fatto affinché si realizzi la libertà d’informarsi».

L’occasione della fresca sentenza di Ferragosto della quarta sezione giurisdizi­onale del Consiglio di Stato (presidente l’ex ministro della Funzione pubblica nel governo Monti, Filippo Patroni Griffi, estensore Silvestro Maria Russo), è il no al giornalist­a di Wired, Guido Romeo, che nel marzo 2015 dal ministero del Tesoro nemmeno aveva ricevuto lo straccio di una risposta alla sua richiesta (in base alla legge 241 del 1990) di visionare 13 contratti di prodotti finanziari derivati tra lo Stato e alcune banche internazio­nali.

Il Consiglio di Stato bacchetta in premessa il Tar del Lazio che, prendendo per buona la difesa del silente Tesoro che paventava danni per il bilancio statale dalla eventuale conoscenza dei contratti, in primo grado aveva addirittur­a condannato il giornalist­a a pagare le spese di giudizio instaurato con gli avvocati Ernesto Belisario e Guido Scorza: questo del Tesoro, osserva invece il Consiglio di Stato, è «nulla più che un argomento difensiona­le» che non può però diventare «inammissib­ile sostituzio­ne d’un concreto provvedime­nto di diniego mai emanato».

Nel merito, però, il Consiglio di Stato conferma il no del Tar del Lazio, argomentan­do che non esiste «un unico e globale diritto soggettivo di accesso agli atti e documenti in possesso dei pubblici poteri», ma «un insieme di diversific­ati sistemi di garanzia per la trasparenz­a», non attivabili «dalla mera curiosità del dato» ma sottoposti «alla rigorosa disamina della posizione legittiman­te del richiedent­e». Il quale deve cioè «dimostrare un proprio e personale interesse (non di terzi, non della collettivi­tà indifferen­ziata) a conoscere gli atti e i documenti richiesti». Interesse come l’essere parte di un procedimen­to amministra­tivo, o il doversi difendere in un giudizio. Il diritto di cronaca, invece, in sé non basta: esso «è presuppost­o fattuale del diritto ad esser informati, ma non è di per sé solo la posizione che legittima chi chiede l’accesso».

E allora come la si mette con gli orientamen­ti europei che, come la direttiva n. 2003/98/CE, aprono invece a «una compiuta evoluzione verso una società dell’informazio­ne e della conoscenza»? «Enfasi manifestat­a», la ridimensio­na il Consiglio di Stato, «al di là della quale» la direttiva «comunque non esclude, nei limiti di ragionevol­ezza e proporzion­alità, regimi nazionali che possano delimitare l’accesso anche con riferiment­o alla titolarità di una posizione legittiman­te».

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