Il complicato accesso alle fonti
DIRITTO
Chi nel giornalismo propugna un sempre maggiore diritto di accesso alle fonti (giudiziarie comprese), come antidoto ai guasti del mercato nero delle notizie, incassa ora il no del Consiglio di Stato.
«Non si ravvisa nell’articolo 21 della Costituzione il fondamento di un generale diritto di accesso alle fonti notiziali, al di là del concreto regime normativo che di volta in volta, e nell’equilibrio dei molteplici e talvolta non conciliabili interessi in gioco, regolano tal accesso».
Giù la saracinesca. Chi nel giornalismo da tempo propugna l’omeopatia di un sempre maggiore diritto di accesso alle fonti (comprese quelle giudiziarie) come antidoto ai guasti del mercato nero delle notizie in mano altrimenti a chi possieda il potere di aprirne o chiuderne il rubinetto, deve incassare il no che arriva da una interessante pronuncia del Consiglio di Stato. A detta del quale «occorre evitare ogni generalizzazione sul rapporto tra diritto d’accesso» agli atti e «libertà di informare». Perché «il diritto di accesso» non sarebbe «il presupposto necessario della libertà d’informare», ma sarebbe vero «l’esatto opposto: é il riconoscimento giuridico della libertà di informare che, in base alla concreta regolazione del diritto di accesso, diviene il presupposto di fatto affinché si realizzi la libertà d’informarsi».
L’occasione della fresca sentenza di Ferragosto della quarta sezione giurisdizionale del Consiglio di Stato (presidente l’ex ministro della Funzione pubblica nel governo Monti, Filippo Patroni Griffi, estensore Silvestro Maria Russo), è il no al giornalista di Wired, Guido Romeo, che nel marzo 2015 dal ministero del Tesoro nemmeno aveva ricevuto lo straccio di una risposta alla sua richiesta (in base alla legge 241 del 1990) di visionare 13 contratti di prodotti finanziari derivati tra lo Stato e alcune banche internazionali.
Il Consiglio di Stato bacchetta in premessa il Tar del Lazio che, prendendo per buona la difesa del silente Tesoro che paventava danni per il bilancio statale dalla eventuale conoscenza dei contratti, in primo grado aveva addirittura condannato il giornalista a pagare le spese di giudizio instaurato con gli avvocati Ernesto Belisario e Guido Scorza: questo del Tesoro, osserva invece il Consiglio di Stato, è «nulla più che un argomento difensionale» che non può però diventare «inammissibile sostituzione d’un concreto provvedimento di diniego mai emanato».
Nel merito, però, il Consiglio di Stato conferma il no del Tar del Lazio, argomentando che non esiste «un unico e globale diritto soggettivo di accesso agli atti e documenti in possesso dei pubblici poteri», ma «un insieme di diversificati sistemi di garanzia per la trasparenza», non attivabili «dalla mera curiosità del dato» ma sottoposti «alla rigorosa disamina della posizione legittimante del richiedente». Il quale deve cioè «dimostrare un proprio e personale interesse (non di terzi, non della collettività indifferenziata) a conoscere gli atti e i documenti richiesti». Interesse come l’essere parte di un procedimento amministrativo, o il doversi difendere in un giudizio. Il diritto di cronaca, invece, in sé non basta: esso «è presupposto fattuale del diritto ad esser informati, ma non è di per sé solo la posizione che legittima chi chiede l’accesso».
E allora come la si mette con gli orientamenti europei che, come la direttiva n. 2003/98/CE, aprono invece a «una compiuta evoluzione verso una società dell’informazione e della conoscenza»? «Enfasi manifestata», la ridimensiona il Consiglio di Stato, «al di là della quale» la direttiva «comunque non esclude, nei limiti di ragionevolezza e proporzionalità, regimi nazionali che possano delimitare l’accesso anche con riferimento alla titolarità di una posizione legittimante».