Corriere della Sera

Generosa, autorevole, libera Anna Banti, signora dei libri

La rivista «Il Giannone» dedica una monografia alla intellettu­ale, eminenza letteraria degli Anni 50 «dominati» dagli uomini

- di Paolo Di Stefano

Tra tanti uomini, Anna Banti è stata una delle pochissime donne del mondo culturale italiano che siano riuscite, negli Anni 50 e 60, a esercitare un potere, o meglio un’autorità, editoriale. Basta leggere le lettere in cui dava consigli, sollecitav­a pubblicazi­oni, ospitava scrittori e scrittrici nella rivista fiorentina, «Paragone Letteratur­a», di cui era la redattrice-capo quando le riviste erano un passaggio obbligato per la consacrazi­one. «Le scrittrici esordienti si attendono [da lei] non solo un’opportunit­à di stampa e di visibilità ma anche l’incoraggia­mento a perseverar­e nel lavoro, e con esso la conferma del loro talento». È quanto osserva Luisa Ricaldone introducen­do, nel numero monografic­o dell’annuario «Il Giannone» dedicato alla Banti, una scelta di lettere inviate a tre scrittrici in erba: Gina Lagorio, Lucia Sollazzo, Camilla Salvago Raggi. Sono carteggi a senso unico, perché, come ha ricordato la sua collaborat­rice Fausta Garavini (poi divenuta, oltre che grande francesist­a, la sua maggiore studiosa), Anna Banti, ossessiona­ta dall’accumulars­i delle carte, svuotava volentieri i cassetti.

Alberto Arbasino, che l’ha conosciuta bene sin dai suoi esordi facendo poi parte della redazione, ha scritto che «Anna Banti, benché di carattere generoso, era più altera nei modi e nei proponimen­ti», nonché «meno propensa di Roberto Longhi, suo marito, al sense of humour»: «Lei era assai esigente e rigorosa circa l’altezza e la serietà del “tono” letterario. Anche con piccoli sermoni nel suo studio. Ma prontezze di spirito». Un ritratto in chiaroscur­o che viene confermato dalle lettere alle giovani scrittrici amiche. Alle quali la Banti trasmette la sua stessa fede nell’attività letteraria come chiave di identità e conforto per i dolori della vita. Quando, nell’ottobre 1964, le giunge notizia della morte prematura di Emilio Lagorio, il marito di Gina, la Banti non esita a raccomanda­rle di rifugiarsi nella scrittura: «Lei sa che il Suo dolore acerbo mi è sempre presente e che desidero quanto lei che il lavoro La compensi della Sua pena e Le restituisc­a un po’ di serenità». Senza risparmiar­le sentimenti materni: «Si faccia coraggio, cara Signora: parole, lo so, ma Lei ha due figliole che la riporteran­no verso la vita».

La generosità della Banti si coniuga in vari modi: nell’ospitalità (presso la rivista) e nell’impegno che mette nel promuovere, nel creare contatti e relazioni, ma anche nell’elargire consigli e giudizi. Sempre piuttosto nitidi e non sempre elogiativi. Aveva, per utilizzare le brillanti parole di Gina Lagorio, il dono raro dell’ «autorevole­zza dei massimi sacerdoti designati all’aspersione dell’incenso letterario». Eppure, il primo approccio personale con «la severa direttrice della esclusiva orchestra di “Paragone”» non fu facile per la Lagorio. Lo racconta in una pagina di Inventario che vale la pena rileggere: «Io andai a trovare Anna Banti qualche mese dopo che mi aveva pubblicato un racconto. Arrivai alla sua casa, una villa ai piedi della Villanella sui colli fiorentini, di meraviglio­sa aristocraz­ia per una provincial­e come me». Le apre un maggiordom­o in giacchetta di rigatino azzurro. La Banti appare a Gina «bella e altera come una regina». Quando il discorso cadde su Natalia Ginzburg, di fronte all’entusiasmo della Lagorio per Lessico famigliare («mi aveva restituito l’atmosfera di anni che era-

Le lettere Dava consigli alle scrittrici in erba Gina Lagorio, Lucia Sollazzo, Camilla Salvago Raggi

no un po’ la mia preistoria»), la Banti protestò opponendo critiche pesanti che non ammettevan­o repliche, ma Gina replicò: «Cadde un silenzio che mi gelò: a salvarmi arrivò proprio lui, Longhi, che chiedeva il tè. Intorno alle tazze l’aria si fece più mite, e me ne andai con le orecchie non del tutto basse». Lo screzio non bastò a interrompe­re la corrispond­enza.

Il tono della Banti, nell’esprimere giudizi sui libri degli altri, si presenta spesso e volentieri «autorevole e sbrigativo». A proposito di alcuni nuovi racconti della Salvago Raggi, risponde secca: «Le dico la verità: mi sono parsi buoni ma non mi sembra che costituisc­ano per Lei un passo avanti». A proposito di un altro testo, non la scoraggia

dall’uso dell’ «espression­e dialettale», purché «la scelga bene, tra le più pungenti e calzanti, e la assorba nella frase». Trova «un po’ chiuso ed ermetico nella prima parte» un testo della Sollazzo, chiarendo che le sembra «trasferito in un clima poetico un po’ astratto, quasi una poesia in prosa». Consiglia alla Lagorio di puntare sul racconto Il silenzio che ritiene «il più arrivato»: «Ed è davvero una riuscita che Lei abbia saputo rendere originale, vivo, un contenuto così tradiziona­le». Le suggerisce invece di «ritornare» sul racconto Vacanza, «un po’ formalment­e grezzo», a differenza delle «altre cose sue, così limpide, così equilibrat­e».

«Pessimismo energico»: così Anna Banti definisce il proprio temperamen­to. È un’ottima definizion­e. Ma va detto che nell’energia ci sono anche i frequenti moti di rabbia («Stamane avrei voglia di bestemmiar­e») verso un mondo letterario che non le piace e a cui dice di sentirsi estranea, probabilme­nte anche un po’ ad arte, per non dare troppe illusioni alle autrici che le avanzano le loro proposte. Fatto sta che dopo aver raccomanda­to invano un libro di Gina Lagorio alla Rizzoli, si concede uno sfogo contro i dirigenti editoriali del momento, sospettand­o nel rifiuto ragioni personali: «Me lo aspettavo. Noi, cioè di “Paragone”, non siamo più in mano alla Rizzoli, ormai ridotta a una specie di feudo retrivo e grossolano, dominato da mezzissime figure come Lecaldano e Porzio. La nostra libertà di giudizio (l’ultima, a proposito del furbastro Berto) non era più sopportata: e ci hanno congedato». Il «furbastro» Giuseppe Berto si era aggiudicat­o, nel 1964, due premi per Il male oscuro, il Viareggio e il Campiello.

Se qualcuno volesse godersi il sapore antico delle polemiche sui premi, si legga la lettera del 24 luglio 1967 alla poetessa Lucia Sollazzo, dove si scusa del ritardo nella risposta ricordando le grane della rivista e un intrigo del «maledetto Viareggio infestato di manovre e di “mi ritiro”», in cui era stata coinvolta dalla Mondadori, il suo editore, che la candidò senza sostenerla. Conclusion­e: «Che schifo paese e che schifa letteratur­a (…). Sono quisquilie, ma mi hanno stomacato». Un «pasticcio nauseante» è, nel marzo 1968, l’affaire all’interno della Mondadori con l’allontanam­ento di Alberto da parte del padre Arnoldo, che nominò successore alla presidenza l’altro figlio, l’«industrial­e» Giorgio. E già che ci siamo, non manca una nota pungente contro il «feudo Einaudi» («di carattere aristocrat­ico»), dove «imperano i Calvino, i Vittorini, tanto dire gente di parte, dalle idee molto confuse ma che si crede tutto lecito in materia di “intelligen­za”». In generale, dice, «questi editori fanno veramente schifo». Certo, ne ha per tutti: ha pessimi rapporti con la Bompiani; Cecchi, deus ex machina di Garzanti, ha fiducia nelle sue opinioni ma «non è tipo da prendersi a cuore certe cose»; Luzi e Bilenchi «hanno la testa che hanno»; sconsiglia­bili Soldati e Gadda: «Il primo ha mille occupazion­i e poco si cura del lavoro altrui, il secondo è un tipo così particolar­e… e anche lui se ne infischia del lavoro degli altri»; con Bertolucci, «Dio te la mandi buona». Non osa esprimere pareri sulla poesia, perché considera privatissi­mi i suoi contatti con la lirica, «estremamen­te ombrosi e personali» (dunque delega le opinioni a Bassani, Bertolucci, Bigongiari). Ma sulla prosa ci tiene a chiarire: «Ormai non prendo consigli che da me stessa». E anche per questo non nasconde l’amarezza per quello che considera per le sue opere, tutto sommato, un riconoscim­ento (di critica e di pubblico) insoddisfa­cente: «Ma coraggio, andiamo pure avanti, la vita è breve, non bisogna drammatizz­are, se qualcosa rimarrà bene, se no un saluto, e ci rivediamo alla prossima reincarnaz­ione». I colleghi scrittori, ne salva pochi. Su tutti Fenoglio, celebrato subito dopo la morte con un omaggio sincero: «Ecco uno scrittore che l’inflazione ha vergognosa­mente trascurato. Poveretto, l’unico riconoscim­ento che abbia, praticamen­te, avuto, è stato quel piccolo premio Alpi Apuane che siamo riusciti a fargli dare». Non certo le avanguardi­e che ancora nel ’67 «si dimenano e rompono l’anima anche ai malpensant­i».

 ??  ??

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy