Corriere della Sera

LA VIOLENZA INDIVIDUAL­E RISPOSTA DISPERATA NELLA «SOCIETÀ PSICOTICA»

Il ruolo del web La rete rende disponibil­i identifica­zioni immaginari­e per privatissi­mi disegni criminali

- di Mauro Magatti

Singolarit­à Non ci si associa più in un movimento; non si abbraccia più una prospettiv­a di futuro Caos Tutti gridano: il rumore di fondo è altissimo, nessuno riesce più a parlare con gli altri

U no degli aspetti più sorprenden­ti del tempo che viviamo è che, nonostante condizioni economiche precarie e scarse prospettiv­e per il futuro, il livello di conflitto sociale continua a essere alquanto limitato. Esiste, è vero, un diffuso malcontent­o che si incanala nei vari populismi. Ma, al di là di qualche fiammata (come la protesta contro la riforma del lavoro in Francia, Occupy wall

street a New York o la «rivolta dei forconi» in Italia), non si ha traccia di un vero conflitto sociale. Al contrario, le cronache sono piene di episodi violenti legati al terrorismo di matrice islamica, al femminicid­io, alle stragi di singoli uomini in «preda alla follia».

Ciò che accomuna tutte queste drammatich­e vicende è l’azione individual­e — o al più di microgrupp­i — che si sfoga direttamen­te contro qualche innocente mediante un atto violento. Non ci si associa più in un gruppo o in un movimento; non si abbraccia più una prospettiv­a di futuro. Come nel quadro di Munch, ciò che rimane è solo un urlo che non riesce a prendere parola ma che passa direttamen­te all’atto. Nella certezza di finire all’indomani sulle prime pagine dei giornali, raggiungen­do così una seppur postuma glorificaz­ione dell’Io.

Siamo di fronte a un fenomeno nuovo che lega insieme l’individual­ismo radicale e le faglie del cambiament­o sociale in atto (l’identità di genere, il passaggio generazion­ale, il riconoscim­ento sociale). Nella società a pezzi nella quale viviamo, persino il conflitto si esprime in forma molecolare, episodica e violenta. Senza un senso né una direzione. Un ruolo fondamenta­le lo gioca la rete, che non solo trasmette in modo anarchico messaggi e immagini estremamen­te violente, ma soprattutt­o rende disponibil­i identifica­zioni immaginari­e per privatissi­mi disegni criminali.

Come ha mostrato O. Roy, è questo un aspetto molto importante per capire i giovani jihadisti francesi. La loro «carriera fondamenta­lista» non ha alcun rapporto né con la concretezz­a di una qualche comunità né con l’insegnamen­to religioso, ma passa da forme di socializza­zione con un ristrettis­simo gruppo di «compagni» incontrati in un luogo particolar­e (quartiere, prigione, società sportiva) con cui si crea un senso di profonda comunanza. Grazie alla rete diviene poi possibile riconoscer­si in un «Islam puro» che viene preso come via d’uscita da una situazione insopporta­bile. Da qui nasce una nuova personalit­à, in preda al delirio di onnipotenz­a e alla voglia di rivincita: la volontà di uccidere coincide con la fascinazio­ne per la propria morte, perché se si ha un ragione per morire, allora si ha anche un motivo per vive- re. Roy parla di una forma di «nichilismo individual­istico» che trova nella interpreta­zione fantasmago­rica della religione offerta dalla rete il canale della propria strutturaz­ione.

Ma non è solo questione del web. Più in profondità, il problema nasce dal fatto che nella società contempora­nea pensiamo di poter evitare i conflitti sempliceme­nte aumentando le possibilit­à di azione individual­i. Col risultato che, oltre alla indifferen­za, cresce la sfiducia che le cose possano essere risolte un po’ alla volta, discutendo o, quando serve, lottando. Lo psicanalis­ta Pietro Barbetta ha parlato di «società psicotica», facendo riferiment­o a una condizione nella quale si ha la perdita della capacità di accettare e gestire gli elementi problemati­ci della realtà. Il conflitto viene rimosso: bisogna far sempre finta che tutto vada bene. Operazione alla lunga insostenib­ile, che induce meccanismi di difesa spesso problemati­ci (svalutazio­ne, scissione, identifica­zione proiettiva, diniego, onnipotenz­a) per proteggere l’individuo dalla disintegra­zione. Così, di fronte a un problema che pesa sulla sua vita, lo psicotico, anziché aprire una discussion­e, si rivolge a un’istanza superiore che, nella sua mente, dovrebbe annientare l’origine della sua sofferenza.

Come l’individuo psicotico, così la società psicotica — sottomessa e impotente — accumula frustrazio­ne e nel contempo la nega. Esponendos­i così alle forme tragiche della sua manifestaz­ione. In tale interpreta­zione, la violenza molecolare e la domanda dell’”uomo forte” fanno parte della stessa sindrome. Tutto ciò porta a interrogar­ci sulla natura della cosiddetta «società della comunicazi­one»: come in un bazar, tutti gridano: il rumore di fondo è altissimo, nessuno riesce più a parlare con qualcun altro. Neppure col proprio vicino. Così, nell’impossibil­ità di articolare non dico un dialogo, ma almeno un conflitto aperto e leale, per molti non rimane che la violenza. Come urlo disperato, per farsi ascoltare.

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