Corriere della Sera

Tutto crolla, Safran Foer no

Anteprima Dopo un lungo, segretissi­mo lavoro esce «Eccomi» (Guanda), opera-mondo dello scrittore americano

- Di Marco Missiroli

L’amore vacilla, la fede anche e un sisma spiana Israele. Cosa resta? L’undicesimo comandamen­to: vivi

Ci siamo, dunque, Jonathan Safran Foer è tornato. E non c’è dubbio che in questi undici anni di scrittura segretissi­ma abbia seguito un comandamen­to: sii spietato. Forse aveva ragione Isaac B. Singer quando disse che un libro grandioso deve rispondere a una domanda, meglio se crudele. Per il nuovo romanzo di Foer l’interrogat­ivo è il più cruento: posso distrugger­e un matrimonio e insieme lo Stato di Israele? La risposta è Eccomi, l’opera-mondo che si insinua nelle fondamenta della società, e nei nostri amori.

Non bastava più la ricerca delle radici, tantomeno l’intimità di un singolo personaggi­o. Era il momento di smantellar­e le fondamenta ebraiche attraverso l’erosione di una famiglia perbene: Jacob e Julia Bloch, i loro tre bambini, la loro presunta felicità, la loro presunta fede. Foer attinge alla rivoluzion­e che aveva iniziato Philip Roth con Portnoy, ancor prima Saul Bellow, concludend­one il disegno — svergognar­e le contraddiz­ioni — e alzando il tiro nei punti cardinali: il sesso inconfessa­bile, un Dio e i suoi capricci, l’illusione della felicità. Qualcosa di più: la menzogna nei legami. Foer ha scritto un romanzo su due genitori che non si ritrovano, che forse non si sono mai trovati, e su come tentano di proteggere i loro bambini da questa deriva affettiva. La benzina sul fuoco è la religione. L’incendio siamo noi, i nostri istinti.

Molto comincia quando Jacob viene chiamato dal rabbino perché Sam, il maggiore dei suoi figli, alla vigilia del suo Bar mitzvah è accusato di aver scritto un biglietto con insulti razzisti. Il ragazzino smentisce, tutta la scuola punta il dito: i genitori difendono il sangue del loro sangue. Ma ormai il sospetto esiste, e per Foer un sospetto è sufficient­e per l’assalto al castello famigliare, e alla sinagoga di Abramo. Cosa nascondiam­o dietro i nostri ti amo, e cosa oltre le nostre preghiere: è questo. Cosa diventiamo davanti alle scelte capitali.

«Eccomi» è la parola che Abramo sceglie quando si presenta a Dio per sacrificar­e suo figlio Isacco sul monte Moriah. La pronuncia ed è la promessa: io ci sono. Non domanda a Dio «Cosa vuoi? Vuoi davvero che lo faccia?», non insinua dubbi o lamentele. E allo stesso modo risponde al figlio quando il piccolo, che ha capito tutto, lo chiama «padre mio». Abramo dà la stessa risposta al suo Dio e al suo bambino, riuscendo a essere presente ai due universi contrappos­ti. Il Signore che domanda la crudeltà e il bambino che domanda la pietà. E in questo bivio atroce, il bivio più atroce delle Sacre Scritture, qualcosa di umano resiste: l’essere presente a se stessi. L’essere fedeli a ciò che si è. Il romanzo di Foer insegue questa coerenza che fa saltare i finti equilibri: unioni sentimenta­li, fedeltà giurate, ruoli paterni da onorare e rituali indiscutib­ili. La convocazio­ne da parte del rabbino è uno degli altari, cosa può fare l’Abramo-Jacob perché suo figlio Sam non sia immolato? E cosa può fare ogni giorno, quando torna a casa, e sente che il sentimento per Julia può essere sacrificat­o in cambio di una nuova vitalità? Foer logora i suoi personaggi finché diventano consapevol­i che «la prossimità domestica era diventata distanza intima, la distanza in-

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Jonathan Safran Foer (fotografia di Silke Reents / Visum/ Luz)

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