Corriere della Sera

LE MACERIE E LA FORZA DI REAGIRE

Oltre 150 morti tra Lazio e Marche. Case schiacciat­e, danni anche ai viadotti Si cerca tra le rovine del famoso Hotel Roma: «Lì dentro erano in ottanta»

- Di Gian Antonio Stella

L’altalena azzurra, lo scivolo grigio, il castellett­o rosso. A terra, uno dopo l’altro, i corpi allineati di una dozzina di morti coperti pietosamen­te da teli sotto gli alberi. Da un lenzuolo spuntano due piedi, uno nudo, l’altro coperto da un calzino. Sorpreso dal cataclisma nel sonno profondo, il poveretto deve aver fatto in tempo a infilarsen­e solo uno. Poi è finito tutto. Poliziotti e vigili del fuoco notano il dettaglio. Sospirano. Era difficile trovare, per la conta dei cadaveri di Pescara del Tronto, uno dei paesi azzannati e sbriciolat­i ieri notte dal terremoto, un luogo simbolico migliore del piccolo e ridente parco giochi per i bambini. Perché era tutta lì, la rappresent­azione della frattura tra la vita e la morte. La serenità di un’estate serena e assolata e lo strazio di chi, di colpo, si è ritrovato senza più niente.

La casa di pietra, il padre, la madre, un figlio, un amico... Tutto spazzato via.

«Per nove ore abbiamo scavato tra le macerie in cerca di un uomo e una donna. Marito e moglie», si sfoga sconsolato Mario Minnini, un carabinier­e dalle spalle larghe due ante, spossato dalla fatica e imbiancato dalla polvere. «Lei, Ersilia, siamo riusciti a tirarla fuori viva. Lui anche, pareva. Gli parlavamo per fargli coraggio, lui rispondeva. “Forza, Giulio! Forza!” Appena fuori, ha avuto un brivido e se n’è andato. Infarto».

Ha spiegato Matteo Renzi, dopo aver visitato nel pomeriggio Amatrice e l’area più bastonata dal sisma delle 3.36 del 6° grado della scala Richter, che a quell’ora i morti erano già «almeno 120» destinati a salire in serata a 159. Tra i quali molti, troppi bambini. Ma la conta è destinata ad allungarsi ulteriorme­nte. Il solo Hotel Roma nella cittadina reatina, celebre per l’amatrician­a, pare ospitasse in questi giorni d’agosto una ottantina di persone. Ne hanno ritrovate, nella prima febbrile giornata di scavi a mani nude, sei o sette. Le altre?

La speranza, certo, è l’ultima a morire. E chi ha ancora un fratello o una figlia sotto le rovine è giusto che affidi le sue attese al ricordo delle notizie distrattam­ente lette su qualche terremoto della Cordiglier­a delle Ande o nell’Asia centrale dove qualcuno è stato ritrovato vivo anche settimane dopo un sisma. Ma certo le immagini di Amatrice, di Accumoli, di Arquata, tolgono il respiro.

Pescara del Tronto, nelle foto dei turisti e degli amatori scattate fino all’altro ieri, era una graziosa e antica contrada appenninic­a aggrappata sui fianchi del monte a picco sulla vecchia via Salaria che collega Roma all’Adriatico all’altezza di Porto d’Ascoli. Da ieri non c’è più. Annientata. Come se una gigantesca mano si fosse abbattuta sulle sue case, i suoi orti e le sue stradine schiaccian­dole addosso alla montagna.

È stata così violenta, quella scossa, da buttar giù dal letto migliaia di romani, soprattutt­o quelli che abitano ai piani alti.

Per non dire di tanti aquilani. Che hanno rivissuto la notte del 6 aprile 2009 in cui la città fu distrutta da una scossa altrettant­o potente. «Saranno stati cinque sei minuti fa. La mia nuova casa a un piano, tutta in cemento armato ha tremato. Si è scossa. Come un fuscello in mezzo al mare», ha scritto sul suo blog il cronista de Il Centro di Pescara Giustino Parisse, che quella notte, a Onna, perse il padre e due figli, «scendo dal letto, credevo di essere al sicuro nel cemento armato. Ora non lo sono più. Vedo l’orologio, è ancora quell’ora maledetta, sono le 3 e 39 forse poco più, forse poco meno. Guardo fuori, si accendono le prime luci. Il mio villag-

Una mano gigantesca Pescara del Tronto da ieri non c’è più. Annientata. Come se una gigantesca mano si fosse abbattuta sulle sue case e le sue stradine Sedie di plastica Lungo le stradine ingombre di rovine, donne accasciate su sedie di plastica bianche, a volte tutto ciò che resta della casa accartocci­ata

gio a Onna è nel silenzio ma poi sento salire qualche voce. Il telefono comincia a squillare. Le gente è in strada, mi dicono, è tornato l’incubo. È tornato l’incubo. Senza fine».

È stato tra i primi, ieri, ad arrivare ad Amatrice. Per rivivere come inviato del giornale abruzzese quella tragedia che ha stravolto la sua vita. Nell’anniversar­io del sisma aquilano, mesi fa, aveva scritto una lettera ai suoi ragazzi: «Cara Maria Paola, fra un mese avresti compiuto 23 anni. L’età in cui si fanno scelte di vita, l’età in cui dai sogni si è proiettati in una realtà che azzanna già il futuro. Oggi, nella cappellina al cimitero, abbiamo trovato una tesi di laurea. È della tua amica Paola che te l’ha dedicata. Non ti ha dimenticat­o. Domenico, tu a 18 anni eri già un ragazzone. Chissà come saresti oggi!».

Altri papà e mamme, fra qualche anno, sentiranno il bisogno di scrivere lettere simili. Come quelli di due fratelli di quattordic­i e dodici anni. Morti. Tutti e due. Come un altro bimbo di quattro anni schiacciat­o dalle macerie ad Amatrice o Marisol Piermarini, una piccola di un anno e mezzo che i genitori avevano portato ad Arquata perché prendesse aria buona. La mamma, Martina Turco, nella primavera del 2009, aveva già vissuto la notte terribile dell’Aquila. Come Franco Di Gasbarra, che a distanza di sette anni si è ritrovato a correre disperatam­ente giù dalle scale per uscire all’aperto prima che venisse giù tutto.

Il volontario Rodolfo Ianni, della Croce Verde di Ascoli, barba sale e pepe, racconta col groppo in gola di avere perso il fratello Federico, sua moglie Beatrice e due nipotini di tre anni e di cinque mesi.

Lungo le stradine ingombre di rovine, donne accasciate su sedie di plastica bianche, a volte tutto ciò che resta della casa accartocci­ata o piegata su un fianco, sedie salvate dalla distruzion­e solo perché erano in giardino, piangono in silenzio. Dignitose.

Otto frati d’un convento non lontano, accorsi sui luoghi della tragedia, siedono sui marciapied­i tenendo la mano sulla spalla di ragazzi sui vent’anni dagli occhi rossi di pianto. C’è chi ha perso il padre, chi la madre, chi un fratello...

I sopravviss­uti cercano qua e là, tra ciò che resta delle loro case «bombardate» dal terremoto, come ha detto ieri Laura Boldrini in visita nei paesi colpiti, qualche segno che ricordi loro la vita spazzata via. Lo specchio del bagno che affiora tra i calcinacci con uno spazzolino nel bicchiere. I panni stesi ad asciugare e ora adagiati sul muro coricato di fianco. Una porticina miracolosa­mente intatta del comò del nonno sbriciolat­o.

La vecchia Salaria, che qua e là si è abbassata sui ponti e viadotti anche di una quindicina di centimetri, è piena parte per parte di camion e caterpilla­r, fuoristrad­a e ruspe, gru e camionette della Protezione civile e dei volontari arrivati da tutto il Paese. L’altra faccia dell’Italia. Quella di cui tutti andiamo orgogliosi.

«E Norcia?», si chiedono tutti nel vedere la desolazion­e dei paesi annichilit­i dal sisma? Cosa sarà stato di Norcia? La vicina, splendida cittadina di San Benedetto sull’altopiano di Santa Scolastica, colpita nel passato lontano e recente da più terremoti, gli ultimi dei quali nel ‘79 e nel ‘97, accusa sì qualche lesione, alcuni cedimenti, danni secondari a poche strade, un po’ di spavento. Ma nulla di irreparabi­le. Prova provata che i lavori di consolidam­ento e di restauro (sia pure segnati da tangenti, polemiche e clientelis­mo) sono serviti. Un esempio virtuoso. Evviva. Ma che marca il contrasto con chi quei lavori di prevenzion­e, ahi noi..., non li ha fatti.

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(foto di Adamo Di Loreto / NurPhoto) Devastazio­ne Il centro storico di Pescara del Tronto, frazione di 135 abitanti del comune di Arquata del Tronto in provincia di Ascoli Piceno, nelle Marche, è stato raso al suolo dal terremoto che ha scosso l’Italia centrale la notte di mercoledì

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