Corriere della Sera

Il respiro della Terra

- Di Susanna Tamaro

Avrei dovuto accorgermi che qualcosa non andava, l’altro ieri sera vedendo i miei cani abbaiare inquieti sul prato, rifiutando­si di rientrare in casa per raggiunger­e le loro cucce. Come avrei dovuto allarmarmi quando, ormai già a letto, ho sentito la consueta sinfonia dei grilli e degli insetti notturni aumentare fortemente di tono, come una grande onda che, all’improvviso, si erge impetuosa nella notte.

Ho vissuto traumatica­mente sulla mia pelle il terremoto del Friuli nel 1976 e da allora, essendomi poi trasferita nell’Italia centrale, non ne ho quasi perso uno. Quando ci fu quello dell’Irpinia, nel 1980, ricordo che mi trovavo al decimo piano di un palazzo a Roma; vedendo oscillare impercetti­bilmente il lampadario, mi precipitai in strada prima ancora che le persone che erano con me potessero accorgersi di qualcosa. Cosa vietatissi­ma, si sa, ma impossibil­e da non fare quando si è sopravviss­uti ad un terremoto catastrofi­co come quello che avevo da poco sperimenta­to.

Ho sentito poi anche con gran forza quelli della Val Nerina del 1979, dell’Umbria e delle Marche del 1997, dell’Aquila del 2009 e dell’Emilia Romagna del 2012, oltre a quello di pochi mesi fa a Castelgior­gio, che dista soli dieci chilometri da casa mia. Le forti scosse che hanno colpito il Reatino, svegliando­mi nel cuore della notte, sono paragonabi­li, per intensità anche se non per durata, a quelle del Friuli. Non a caso sono le uniche due volte in cui gli animali — anche nel 1976 avevo un cane e un gatto — si sono accorti già da prima di quello che stava per accadere. Chi sopravvive a un terremoto devastante resta traumatizz­ato per sempre. Per questo, quando ho avuto la fortuna di poter costruire una casa mia, ho preteso che venissero applicati i più rigorosi criteri antisismic­i.

Purtroppo però le zone colpite due notti fa — zone meraviglio­se che conosco e frequento da anni — sono per lo più costellate da case antiche, edificate con semplici pietre e mattoni, non molto diverse da quelle che crollarono in Friuli nel 1976. È bastata una scossa per farle andare giù come castelli di carta. La placca africana sta spingendo verso l’Europa, cozzando contro quella euroasiati­ca e il punto di accumulo di energia — capace di deformare la crosta terrestre — coincide proprio con la dorsale appenninic­a dell’Italia centrale. È per questa ragione che tutta l’edilizia di queste regioni dovrebbe essere — e per legge credo che ormai lo sia — antisismic­a. Per il futuro sarà di certo così, ma cosa fare con le costruzion­i più vecchie, già esistenti? Tutti questi borghi meraviglio­si — ormai abitati da poche persone — non sono molto diversi dalle casupole di legno e cartongess­o con cui allestiamo il nostro presepe. Presepe che, non a caso, venne inventato da San Francesco proprio a Greccio, un paese della valle del Reatino.

Anche se ormai dormo sotto un tetto che, speriamo, non mi cadrà mai in testa, non posso non provare ad ogni nuova scossa un senso di panico atavico. Panico che mi ha accompagna­ta per molti mesi, se non per anni, dopo il terremoto del Friuli. «Tutto è vanità» verrebbe da dire come il Qoelet, «nient’altro che vanità» perché del «doman non v’è certezza». La fragilità, la morte — queste realtà ormai indicibili della nostra esistenza — ci compaiono all’improvviso davanti, quasi allegre, veloci, per dirci: «Via. È ora di andare». Ecco che sorge, allora, quell’attimo di rimpianto, quell’istante in cui ci si rende conto di aver fatto i conti senza l’oste, di aver vissuto sbadatamen­te, magari con svogliatez­za o accidia, senza essere riusciti a provare gratitudin­e, sempre e comunque, per questo straordina­rio miracolo che si chiama vita.

La natura, il cielo, la terra, le acque, sono infinitame­nte più forti di noi, delle nostre volontà, delle nostre ambizioni e presunzion­i. Nel loro eterno gioco di violente e sotterrane­e energie consideran­o gli esseri umani non molto diversamen­te da come noi consideria­mo le formiche. Un soffio, una scrollata, un’onda, e tutto è finito. «La terra ha un fiato» dice l’anziana protagonis­ta di un mio racconto, Per voce sola. «Con noi sopra, respira il suo respiro quieto». Ma su questa armonia di respiro può inserirsi ad un tratto un sussulto, un singhiozzo, un’apnea. E di questo dovremmo essere sempre coscienti. Dovremmo ricordarci che la dignità più profonda delle nostre vite non ci giunge dalla forza, dal potere, dalla tecnica, ma dalla consapevol­ezza della nostra profonda fragilità.

La nostra fragilità Il cielo, la terra, le acque sono infinitame­nte più forti di noi: ci consideran­o formiche

 ??  ?? Rovine Un soffitto a cassettoni decorato, un ritratto di famiglia, una porta che dà sul nulla: gli arredi di una casa sventrata ad Accumoli (Samantha Zucchi/ Insidefoto)
Rovine Un soffitto a cassettoni decorato, un ritratto di famiglia, una porta che dà sul nulla: gli arredi di una casa sventrata ad Accumoli (Samantha Zucchi/ Insidefoto)

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