Quelle persone così piccole e fragili nei paesi sepolti da grigio e polvere
Sembrano formiche. Rosse o nere. Puntini microscopici sopra un letto di cenere. Le guardavamo da piccoli, laboriose e rapide, su quel che restava di un falò, subito impegnate, avanti e indietro, mentre riuscivano a trasportare pezzetti di legno chissà quanto più grandi del loro peso.
Queste, invece, sono persone. Esseri lillipuziani e fragili, sopravvissuti al terremoto sopra un tappeto di grigio e polvere, come dopo un uragano o una tempesta di sabbia.
Case medievali senza balconi, conventi senza finestre. Tutto in miniatura, però: un modellino di fiammiferi a cui è stato dato fuoco e per spegnerlo abbiano lanciato secchi di terra dall’alto. Non sai da dove sono scappate, le formiche. Le vedi lì, in coda, quasi in ordine, in mezzo a quel disordine.
Ad Amatrice un palazzo di mattoni ancora resiste, unica macchia di colore in mezzo al deserto. Pure la Torre civica è rimasta intatta, l’orologio immacolato sulla pietra arenaria con le lancette congelate sulle 3.38, due minuti dopo la prima scossa, quando il tempo, dopo la furia, si è fermato davvero: ottantasei vittime solo nel versante laziale.
Pescara del Tronto sembra attraversata da una frana. Una palla di fango secco le è rotolato sopra. Sono cumuli di macerie. Non riesci a distinguere nulla, qualche facciata, ancora, poi scivoli di detriti, tutte le vie interrotte, annientate, i soccorritori fermi sull’anello esterno che non è neppure più una strada. Qui le vittime sono almeno trentasette e chissà quante altre. Si scava a mani nude, come da bambini. Quando era un gioco. Adesso è solo devastazione.