L’appello di Mattarella alla «comune responsabilità»
«Presidente, un terremoto nel centro Italia… sembra grave». Non ci pensa un attimo, il capo dello Stato, quando il Quirinale gli annuncia il dramma che ha colpito Amatrice, Arquata, Accumoli e altre cittadine e borghi tra Lazio, Marche e Umbria. Non sono neanche le sette del mattino. Un caffè e la decisione: vuole essere a Roma prima di pranzo. Per seguire l’organizzazione del soccorso. E per accelerare con la sua firma i provvedimenti o i decreti che si rivelassero necessari e urgenti. Il tempo di preparare la valigia e già trasmette per mail una dichiarazione in cui lega il «momento di dolore e di appello alla comune responsabilità». Scrive, con il tono di chi detta un programma: «L’intero Paese deve stringersi con solidarietà attorno alle popolazioni colpite. Occorre impegnare tutte le forze per salvare vite umane, curare i feriti e assicurare le migliori condizioni agli sfollati. Sarà subito dopo necessario un rapido sforzo corale per garantire la ricostruzione dei centri distrutti, la ripresa delle attività produttive e il recupero della normalità di vita». Assieme a un «pensiero alle tante vittime» e a un ringraziamento per quanti si sono già mobilitati, c’è tutto Mattarella, in quel testo. Basta riandare al telegrafico commento che pronunciò il giorno in cui fu eletto: 15 sole parole, con l’impegno a esser sempre vicino alle «speranze e difficoltà» degli italiani. Impegno che ha poi mantenuto, con una partecipazione non rituale ed evitando ogni spettacolarizzazione del dolore. Tanto più del suo, che ieri lo ha segnato profondamente, come riferisce chi gli è stato accanto, mentre alternava informative con prefetture e unità di crisi a colloqui telefonici con altri statisti (in primis Barack Obama e il re di Spagna). Proprio per questo pudore non andrà tanto presto nei luoghi del disastro: perché non vuole che la macchina degli aiuti perda neppure un minuto dietro a lui. Dopo uno choc di questo tipo, il presidente sa bene che si aprirà la fase più dura e complessa. Come scriveva sul Corriere Alberto Cavallari, dopo questo tipo di lutti in Italia «c’è poco tempo di piangere sui morti, perché è sui vivi che si rischia di dover piangere». Lo insegnano parecchie esperienze, dall’Aquila all’Irpinia e, risalendo indietro, al Belice. Quest’ultima tragedia lui la elaborò accanto al fratello Piersanti e fu molto scosso quando, nel 1980, lo accompagnò a Santa Ninfa per salutare l’amico di famiglia don Antonio Riboldi, rosminiano che aveva condiviso la sofferenza della gente. Quel giorno scoprì «una concreta lezione di sofferenza»: a distanza di oltre vent’anni, infatti, i terremotati erano ancora quasi tutti in baracca.