Mogol da Nobel? Tu chiamale (se vuoi) poesie
Radio nostalgia questa estate continua a celebrare (giustamente) gli 80 anni di Mogol, nato Giulio Rapetti il 17 agosto 1936 (a Milano), diventato il paroliere più prolifico e sorprendente del nostro canzoniere, dal classico Una lacrima sul viso (1964) alle cover dalle hit in inglese, passando per i testi per Battisti. Un po’ sopra le righe, forse, la notizia della candidatura al Nobel per la letteratura. E allora a Dylan cosa devono dare? E Leonard Cohen? E Francesco De Gregori? Quest’ultimo, maestro di parole, note e autocritica, invita a leggere il suo capolavoro La donna cannone senza musica: «È una boiata pazzesca, non sta in piedi!», ha detto di recente, citando Fantozzi. Del rapporto tra poesia e musica si parla come del sesso degli angeli, senza soluzione. Vale la pena di prenderlo contromano, leggendo i poeti che provano a recuperare la dimensione orale e musicale della poesia. Lesto nel suo andare di traverso alla poeticità dei testi cantautoriali è Il fiore inverso di Lello Voce (ed. Squilibri), raccolta di testifiore che crescono con le radici verso l’alto, che è la caratteristica della poesia, secondo il trovatore provenzale Raimbaut d’Aurenga. Lello Voce denuda il suono dei suoi versi e ci gioca assieme ad alcuni musicisti (Frank Nemola, Kento, Paolo Fresu) per svelare la «natura trans-gender della poesia», come scrive nella post-fazione che chiude pezzi quali Milonga mutante e La trappola (in ottave a ritmo di salsa). La giostra di parole testuali e linguaggi musicali è ben sintetizzata nell’attacco di Scrivo quando sono stanco: «Scrivo quando sono stanco quando / sono vivo parlo quando parlo vivo / e quello che dico dopo non lo scrivo / l’abbandono lo smèmoro l’ossìmoro / l’edùlcoro l’àncoro al tempo e poi / quando il tempo passa io prendo / fiato prendo tempo penso forse / scrivo perché ho nostalgia di prima / di quando parlavo ed ero vivo». A ricordarci che la poesia è soprattutto nostalgia, di quando i poeti si sentivano vivi, e avevano voce.