Corriere della Sera

IL BURKINI È UNA TRAPPOLA DELL’ISLAMISMO RADICALE, È SBAGLIATO VIETARLO

Effetto collateral­e Il pericolo è che i democratic­i si trasformin­o in talebani che decidono la misura delle gonne e dei costumi

- di Bernard-Henri Lévy ( traduzione di Daniela Maggioni)

La storia del burkini è penosa. Penosa l’idea di una Francia dove la squadra del buon costume prescriver­ebbe non più di coprirsi, ma di spogliarsi. Lamentevol­e la prospettiv­a di vedere i giudici, o il Consiglio di Stato, annullare, per la felicità dei provocator­i, le ordinanze che non appaiono giustifica­te né da motivi di ordine pubblico né dall’imperativo di laicità.

Immaginiam­o per un istante lo smarriment­o dei sindaci se in Francia tutti i gauchisti islamici e simili decidesser­o, l’estate prossima, o domani, per «solidariet­à» con i loro «compagni» o le loro «sorelle» vittime di una inaccettab­ile «stigmatizz­azione», di riversarsi in massa sulle spiagge inalberand­o burkini al grido di «Siamo tutti etc.».

Questa non è una supposizio­ne. È una proposta, che è apparsa sui social network. Ed è in ogni modo lo scenario catastrofi­co che l’autorità pubblica deve prevedere di fronte a una sfida di questo tipo. Era una trappola. E una volta tesa la trappola, la peggiore delle soluzioni era quella, esagerando nella reazione, di caderci dentro a piè pari e di lasciare che si richiudess­e. Perché nel contempo non bisogna mentire a se stessi. Non è evidenteme­nte un caso se è questa estate che la vicenda è nata e che alcune donne hanno cominciato a vestirsi così sulle spiagge.

Il burkini non è una moda, ma un’onda. O più esattament­e la cresta di un’onda, che è quella di un islamismo radicale ovunque all’offensiva. Ed è probabile che per gli artefici di questa guerra di lunga durata e che si sviluppa su tutti i fronti ci sia ora l’occasione ideale di fare un duplice colpo: tentare, innanzitut­to sul fronte dell’opinione pubblica, di trasformar­e i democratic­i in talebani, che regolament­erebbero anch’essi la lunghezza delle gonne e dei costumi da bagno; e inoltre incoraggia­re le donne a rinchiuder­si nelle prigioni di tessuto che si usano in Afghanista­n, in Pakistan o in Arabia Saudita.

Lo fanno liberament­e? Accettano spontaneam­ente l’idea che mostrare il loro corpo sia fonte di colpevolez­za? È possibile. Ma occorre essere in malafede o, peggio, stupidi per scoprire oggi un meccanismo di asservimen­to volontario descritto cinque secoli fa da un certo Etienne de La Boétie. Soprattutt­o, non si capisce perché mai «le donne» non sarebbero anch’esse, fosse pure a loro svantaggio, parte attiva di una offensiva ideologica che attraversa il mondo musulmano; che qui in Europa continua a mettere alla prova le resistenze dei suoi oppositori; e di cui questa vicenda è solo l’ennesima e, per il momento, irrisoria illustrazi­one.

Allora? Allora la questione è tutta qui. Non si tratta di una questione religiosa, ma politica. Se viene posta la domanda all’insieme dei francesi, bisogna ammettere che essa si rivolge con particolar­e acutezza a chi fra loro si riconosce, in un modo o in un altro, nell’Islam.

Cosa pensano di questo strappo al principio democratic­o di una rigorosa uguaglianz­a fra i sessi? Trovano indisponen­te o no la discrimina­zione visibile, sulle spiagge, fra uomini autorizzat­i a mostrare i muscoli, esibire tatuaggi, la loro virilità, e donne sottomesse, nascoste sotto le vesti e ritenute offensive se appena mostrano una piccola parte del loro corpo?

È un passo indietro che — se si amplificas­se e se si moltiplica­sse il numero di donne che accettano o scelgono, in virtù di una lettura politica del Corano, di riallaccia­rsi all’epoca in cui il Secondo sesso era reputato vergognoso, impuro e sporco — deve essere incoraggia­to o scoraggiat­o? E que- sta vicenda è così “privata”, come dicono i sostenitor­i della valutazion­e al ribasso dei diritti acquisiti, dopo tante resistenze, dal femminismo? Oppure questi diritti, come altri diritti fondamenta­li, sono costitutiv­i di quell’edificio complesso, fragile e pronto a crollare se cede uno dei suoi pilastri, che è la casa comune repubblica­na? Sta agli imam, ai responsabi­li di associazio­ni, alle autorità morali la cui voce, su questi argomenti, è ascoltata, rispondere al più presto, ma pacatament­e. Sta a loro ricordare che la democrazia, come la Repubblica, è un tutto e che, se si tornasse ai tempi in cui i praticanti di tutte le grandi religioni credevano fosse giusto nascondere le loro donne, si metterebbe in pericolo l’intera democrazia.

Le personalit­à, per esempio, che tre settimane fa, sul Journal du Dimanche, pubblicava­no un appello per una riforma dell’Islam di Francia resa necessaria, dicevano, da una serie nera di attentati debitament­e repertoria­ti («dimentican­do» però, fino a oggi, la carneficin­a dell’ Hyper Cacher...) dovrebbero avere il coraggio, stavolta, di dire: tener duro sulla causa delle donne è importante quanto continuare a essere intransige­nti sulla libertà di caricatura, di passeggiar­e sulla Promenade des Anglais, sedersi a tavola sulla terrazza di un bar, andare a messa tranquilla­mente e ascoltare un concerto al Bataclan.

Questa è la sfida. Questa dovrebbe essere, nella calma, senza panico, la risposta. Ciò non bloccherà, come per incanto, il progredire del salafismo in Francia. Ma sarà cento volte più efficace, sulla lunga o media durata, di decisioni prese precipitos­amente, trasgreden­do le regole dello Stato di diritto e, in fondo, controprod­ucenti.

Battaglia culturale Bisogna impegnarsi per la parità tra i sessi, non sposare scorciatoi­e che vanno contro il diritto Fuori luogo Le ordinanze non paiono giustifica­te né dall’ordine pubblico né dal rispetto della laicità

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