L’ILLUSIONE DELLO SPORT
DIVENTA MITO NELL’ERA SENZA TRASCENDENZA MA LA IDEA DI SOCIETÀ LO RENDE VULNERABILE
Cos’è un mito? Nel linguaggio comune designa una falsa storia o una falsa idea: il mito del ritorno alla natura, della crescita zero o del progresso indefinito. Ma nel linguaggio delle scienze umane e dell’antropologia è un racconto che dovrebbe dare senso alle cose per risolvere difficoltà o contraddizioni. Il mito, semplicemente, fa assumere erroneamente un rapporto ideale come fosse un rapporto reale. In questo senso, lo sport è proprio un mito: permette di credere e di far credere...
Lo sport assicurerebbe il modello dell’ideale democratico meglio di quanto non riesca a farlo la nostra società, dove il diritto è talora travolto dalla forza, l’arbitrato è compromesso dall’arbitrario e in cui l’ideale può rimanere allo stato di promessa non realizzata. Di qui lo statuto molto speciale dello sport di competizione che si propone come un universo esemplare, capace di realizzare la perfezione richiesta dalle nostre società: proprio quella che esse non sono sempre in grado di assicurare. L’immagine di
La convinzione Nelle gare verrebbe assicurato meglio che in altri ambiti il modello dell’ideale democratico
questo universo sportivo è chiara: si tratta di una contro-società perfetta, il modello magnificato della nostra, con i propri esperti e i propri eroi. Lo spettacolo permette di sognare la conquista di una società perfetta, ignorandone le complicità oscure, le perversità, le difese.
E mostrando che i giocatori possono vincere contando solo su se stessi, mentre gli spettatori possono condividere emozioni e identità. La messa in scena dell’uguaglianza genera così una cultura, a cui lo stadio ha dato fervore e passione. E questa cultura si è imposta nelle nostre società, con le sue logiche, le sue leggende, i suoi eroi.
Vale la pena soffermarsi ancora un poco su questo dispositivo, per misurare appieno il suo successo attuale. L’immagine è proprio quella di una «contro-società» perfetta, il suo «modello» spettacolarizzato, come alcuni hanno già detto: «un ideale che proviene dalla società, ma che la società si mostra incapace di realizzare» e che perciò induce all’esemplarità, alla ritualizzazione, alla messa in scena sempre rinnovata. E che sviluppa, fino all’illusione, un lavoro interminabile di perfezionamento, la necessità di riaffermare continuamente la frontiera tra i puri e quanti non lo sono, la linea di demarcazione che dovrebbe far crescere gli onesti respingendo pochi spergiuri, fabbricando dei reietti la cui esclusione andrebbe a rafforzare l’istituzione piuttosto che indebolirla.
Lo sport costruirebbe la propria invisibile legittimità attraverso questa purezza postulata. La lotta contro il dilettantismo è stata il cuore di questa frontiera, la lotta contro il doping o i brogli sembrano esserlo oggi. Ma una frontiera c’è sempre, anche se cambiano modalità e generazioni: si tratta dell’affermazione di un mondo separato, che solo il prerequisito della dignità può consentire di condividere. Questo spiega, per lo sportivo dopato per esempio, il dramma personale provocato dall’accusa e lo sforzo esasperato di respingerla, poiché sconvolge la sua stessa identità: un atleta non può «barare», a costo di non esser più se stesso. Tutta la forza dell’esemplarità postulata sta in questa constatazione. Da qui provengono dichiarazioni ai limiti dell’assurdo, ma che tendono a salvaguardare l’indispensabile: «È vero che sono positivo, e tuttavia non mi sono dopato. Almeno questa è la mia opinione...». Da qui provengono anche la sordità e le difficoltà di condannare in un mondo in cui la virtù funge da principio di esistenza e legittimazione.
Dobbiamo aggiungere che il fenomeno si è accelerato con il trionfo dell’immagine e la trasformazione dello sport in spettacolo quasi totale, in grado di saturare i display quotidiani. Il successo è dovuto alla convergenza perfetta tra il gioco e la società dei media e dello spetta- colo. Lo sport incarna, fino alla caricatura, l’immagine del tempo presente: una successione ridondante di eventi, un flusso ininterrotto di informazioni con parametri e risultati costantemente rinnovati. Non più semplice arco di tempo all’interno della vita quotidiana, non più semplice attività separata, ma vero riflesso di questa temporalità: ogni performance crea una nuova informazione, ogni incontro sportivo, ogni gesto di campione fa evento. Ciò aumenta la presenza dello sport e la sua sfida, confermando la sua «evidente» legittimità. Ma aumenta anche la sua possibile «fragilità», la sua vulnerabilità alle trasgressioni di ogni tipo: cattura da parte della politica, tentativi più svariati di sfruttamento dell’immagine, sfide, violenze e eccessi vertiginosi. Assieme alla pretesa di proiettare l’ideale della nostra società, lo sport viene a rappresentarne la parte d’ombra e i possibili guasti.
In un mondo senza trascendenza e senza dei, lo sport sarebbe uno degli ultimi luoghi dove si esprime l’ideale e finanche il sacro. La sua stessa visibilità, senza dubbio il suo semplicismo, la sua oscura volontà di costituire un mondo separato e «preservato» ne fanno anche il luogo dell’ipocrisia dilagante se non di un’evidente vulnerabilità. Più di altre pratiche, lo sport rivela la nostra società.
Nato con la società industriale e democratica, lo sport si assume così il compito gravoso di figurarne l’ideale. Ma non dobbiamo dimenticare che si tratta di finzione, non di realtà. Come non dobbiamo dimenticare, infine e soprattutto, che questa finzione ha anch’essa le sue debolezze e i suoi drammatici fallimenti.
(Traduzione dal francese di Michelina Borsari)
C’è un continuo lavoro per affermare la linea di frontiera tra onesti e spergiuri. Che vacilla a ogni caso di doping