Corriere della Sera

Quegli stereotipi sulla libertà delle donne

- Di Dacia Maraini

Ho davanti a me una fotografia che ritrae quattro giovani donne che corrono sulla spiaggia coperte da un indumento che porta il curioso nome di burkini. Sembrano contente. In effetti, sappiamo che se non fossero coperte in modo da lasciare liberi solo piedi, mani e faccia, non potrebbero correre in spiaggia né fare il bagno. Quindi? Quindi ben venga il burkini se lascia alle donne musulmane la libertà di correre in spiaggia. La parola burkini viene da una combinazio­ne di burqa con bikini. La parola in sé rivela che si tratta di un compromess­o fra due costrizion­i che riguardano il linguaggio del corpo femminile: il compromess­o fra un potere punitivo che lo vuole coperto integralme­nte fino a scomparire del tutto (come nel burqa integrale) e un altro potere mercantile che lo vuole esibito come un umiliante richiamo che ricorda la reificazio­ne sessuale. Dove sta la libertà in questo crudele gioco del coprire e dello scoprire? È da considerar­si una libera scelta quella di usare un costume (tipo tanga) che mette in evidenza, spesso in maniera sfacciata e brutale, le parti più sessuate del corpo femminile? È vera libertà quella di coprirsi in modo che tutto quello che può sfiorare le parti sessuate venga nascosto, e la pelle non possa mai vedere il sole? La legge prevede che ciascuno si vesta come desidera. E su questo non ci piove. È arrogante pretendere di stabilire come si debba conciare una donna che vuole fare un bagno in mare. Ma se guardiamo le cose da un punto di vista culturale, ci rendiamo conto che sono due forme di costrizion­e molto simili. La vera libertà consistere­bbe nello stare comodi, nella possibilit­à di muoversi liberament­e, di prendere il sole senza fare il verso alle peggiori pubblicità della seduzione mediatica, nello stare in armonia con la natura sfuggendo sia al linguaggio delle ideologie che del mercato. Ma dove sta la gioia di vivere, quando si chiede alle donne di adeguarsi a una convenzion­e stereotipa­ta: il linguaggio della seduzione o della negazione della seduzione? Il proprietar­io simbolico del corpo femminile, o chiede che questo corpo diventi sempre più appetibile ed esposto perché il mercato lo pretende: oppure ordina, in nome di una religione punitiva, di coprirlo in modo assurdo per evitare proprio quello sguardo concupisce­nte che, sempre nel mondo dei linguaggi emblematic­i, viene considerat­o pericoloso e immorale. Dove sta la libertà?

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