IL VALORE DI UN LEADER CHE CI RICORDI LA PRECARIETÀ
Il modello fornito dalla nostra società è quello di un corpo senza età, integro. Per questo Hillary Clinton deve dimostrare di essere una donna in forma per arrivare alla Casa Bianca. Ma sarebbe importante avere un presidente americano non in buona salute
Hillary Clinton guarirà dalla polmonite e tornerà presto a combattere in campagna elettorale, ce lo auguriamo tutti, anche i suoi avversari.
Ma quanto sarebbe importante — oserei dire, quanto sarebbe bello — avere un presidente degli Stati Uniti malato. Quale enorme valenza simbolica avrebbe per il mondo, per l’umanità salutista e nosofobica dei Paesi ricchi, la presenza di un grande capo malconcio, debilitato, che porta senza vergogna i segni della malattia sul corpo — magari anche un paio di stampelle, un sondino, una sedia a rotelle — continuando a lavorare per il bene comune, come fanno ogni giorno milioni di persone piegate da seri problemi di salute, problemi spesso nascosti agli sguardi della gente in forma.
Il modello fornito dalla nostra società è quello di un corpo senza età, integro (benché modificato), sempre pronto ad alte prestazioni (lavorative, atletiche, sessuali), igienizzato da diete e depilazioni, un corpo in neoprene e fibra di carbonio nel quale l’irruzione della malattia non appare come il segno naturale della nostra fragilità, bensì come una colpa.
C’è un neanche troppo larvato giudizio morale nello sguardo della società verso la persona che sta male. Chi è sano è in salvo, salus significa sia salute che salvezza, mentre male viene da malus, cioè cattivo. Nella cultura laica del ventunesimo secolo il peccato di essere malati è stato rideclinato in una specie di inadeguatezza estetica, qualcosa che non è più il marchio (le stigmate) di una punizione divina, ma resta ancora una responsabilità di cui dover dar conto e che spesso si preferisce omettere.
Nell’orizzonte psicotico di un benessere senza limiti le persone malate sono come tanti Diogene che si ostinano a far luce con le loro lanterne sul nostro lato più nascosto: la finitezza. Se ne vanno in giro a mostrare quanto siamo deboli, difettosi, transitori: è ovvio che la gente preferisce che se ne stiano rinchiusi negli ospedali. Invece i malati portano le loro facce consunte negli uffici, nelle aule, e anche sì, nelle palestre. Pretendono di vivere allo scoperto, di lavorare addirittura.
Hillary Clinton deve affannarsi a dimostrare che i suoi sono malanni passeggeri, che è una donna in forma, col colesterolo sotto i 200, la pressione 80/120, l’ecodoppler negativo, la giusta dose di acido ialuronico sottocutanea, glutei e quadricipiti che fremono per tornare allo squat.
Solo così, rassicurandoci quanto all’efficienza fisica e alla condivisione del nostro modello liberal-edonista, può sperare di diventare la prima presidentessa del più potente Paese del pianeta. Eppure avremmo proprio bisogno di un grande leader che ci educasse alla debolezza, un capo mondiale che facesse testimonianza di precarietà. Lo ha La nostra finitezza Le persone malate sono come tanti Diogene che si ostinano a far luce con le loro lanterne Il pontefice polacco A ogni apparizione Wojtyla pareva dicesse: ecco vedi, l’uomo è fatto così, l’uomo muore così fatto Gandhi, lo ha fatto Mandela, lo ha fatto Muhammed Ali. Lo ha fatto Karol Wojtyla, mostrandosi negli ultimi anni come ostensione stessa del corpo di Cristo, performance mirabile, instancabilmente ripetuta di ciò che Paolo di Tarso chiamava la kenosis, l’abbassamento, l’incarnazione, lo svuotamento di Dio nel Figlio fattosi uomo.
A ogni apparizione pubblica Wojtyla pareva dicesse: ecco vedi, l’uomo è fatto così, l’uomo muore così. Non ha smesso di smuovere mari e monti, Wojtyla, pur essendo incastrato in un corpo deturpato e sofferente. Quale prezioso insegnamento potrebbero trarre, anche i non credenti come me, alla vista di un capo di Stato che incede claudicante o coordina un vertice Nato senza nascondere il tremore della mano.
Fantasticando sul mio stato ideale, penso spesso a quella che sarebbe la mia prima proposta di legge: l’obbligo di tutti i cittadini sani, dai quattordici ai sessant’anni, di trascorrere un’ora alla settimana in ospedale. Non sto parlando di servizio civile né di volontariato, sto parlando di una semplice sosta in una corsia o in un ambulatorio. Un’ora per tutti, ogni settimana. Pensate che bello a scuola: geografia, ginnastica e poi un’ora di umanità. Non dico in pronto soccorso o al centro grandi ustioni, basterebbe la sala d’attesa per il Pap-test, anche solo quella per l’esame del sangue. La malattia non ci rende inferiori, ci fa assomigliare un po’ di più a quello che siamo.