Usa, la riforma sulla tutela dei disturbi mentali
pressioni contrastanti, non può far finta di stare alla testa di una macchina che funzioni e che si è dimostrata troppo permeabile a interessi mafiosi (il pericolo non è archiviato). Come riformarla? È un problema di lungo periodo, che bisogna porsi: va oltre il governo ordinario. Roma, con le sue dimensioni e istituzioni, non può candidarsi però a essere una città globale. E poi questa Roma non è amata dai suoi cittadini. È percepita lontana dalla gente nei problemi quotidiani: dai trasporti alla nettezza urbana, al traffico… I romani si sentono altrove tra difficoltà e solitudini dei tanti ambienti periferici. Proprio nelle periferie e nelle sue solitudini, le reti mafiose possono proporsi come un supporto nel quotidiano, perché nel vuoto sociale non si vive. Questa è una permanente fragilità della città.
Il grande problema è il divorzio tra il Campidoglio e la società. La società non è più quella delle periferie alla metà degli anni Settanta, portate compatte dal Pci alla conquista del Comune. È frammentata e disarticolata. Chi mira all’eccellenza si rifugia in nicchie. Non esistono veicoli per convogliare consensi ed energie su una visione del «bene comune». Non c’è politica. Roma è arrabbiata, ma non si muove né «per» né «contro». Forse i romani sono uniti solo da un diffuso atteggiamento, fatto di scontento per la città, ma anche di affannata difesa del proprio «nido». S’investe sulla propria casa, ma tutto intorno lascia a desiderare. Si cerca di ridurre il più possibile l’uso personale del pubblico e del comune, come nei trasporti o nella sanità. Si tratta di rivolte individuali verso una città percepita come matrigna, che diventano un modo di vita. Tra l’altro, una città, vissuta così, ha scarse capacità d’integrazione per il mezzo milione di non italiani d’origine che abita qui, il 12,7% della popolazione (tra cui 100.000 musulmani).
Eppure Roma, in cattivo stato e penalizzante secondo chi la abita, è tanto amata nel mondo e dai turisti. Questi sono aumentati (del 77% dal 2000), nonostante visitare Roma sia più defatigante che vedere Parigi. Qualche flessione ci può essere, ma la capitale conserva un’attrazione e, in tante parti del mondo, resta un mito. Forse i romani amano poco la loro città o rinunciano a sperare in un destino comune, considerandola ormai uno sfondo all’intreccio delle loro esistenze. C’è un grave problema di società civile. Per questo, nonostante la necessità del miglior governo cittadino possibile, non si può guardare solo al Campidoglio, ma anche ai romani. Senza un processo di ricomposizione che riparta dalla società civile, il governo finirà per essere lo specchio dei romani.
Una città come Roma non può vivere senza idee, visioni, aspirazioni condivise. La giunta Raggi entri presto nel vivo dei problemi, com’è suo dovere. Non basta, se però qualcosa non si muove nella società e tra i romani. Lo storico tedesco, Theodor Mommsen, nel 1871, chiedeva preoccupato a Quintino Sella: «Ma che cosa intendete fare a Roma?». E ammoniva la nuova classe dirigente: «a Roma non si sta senza avere dei propositi cosmopoliti». Aveva ragione. Da troppo stiamo a Roma senza propositi cosmopoliti, ma anche con poche idee. Che intendiamo fare di Roma?
Ritardi Il problema non può essere personalizzato. Ma si spera che Virginia Raggi entri presto in azione Società civile E’ necessario avere il miglior governo cittadino possibile, ma non si può guardare solo al Campidoglio
Undici milioni di americani soffrono di disturbi mentali. Un tipo di patologia che non ha la stessa tutela delle altre malattie. Sul tema riflette il Denver Post, diretto da Lee Ann Colacioppo. La riforma che è stata presentata al Senato rischia di impantanarsi. E non sarebbe la prima volta. Un problema che lo Stato del Colorado sente con più sensibilità. Anche a causa del tasso di suicidi che è aumentato. Per non parlare del disagio familiare che provoca farsi carico di una persona affetta da disturbi di natura psichica. Combattere il senso di esclusione e di ingiustizia dei giovani dovrebbe essere un’emergenza nazionale. Non lo è, purtroppo
Egoismi generazionali
24,2 per cento nel 2007, è diminuito al 16,1 nel mese di luglio. E, dall’inizio della crisi, mancano, in quella fascia, 474 mila posti di lavoro in un Paese con sempre meno nati nel quale, solo lo scorso anno, 100 mila laureati sono stati costretti ad andare all’estero. I maggiori guadagni di occupazione del Jobs act hanno riguardato le fasce più anziane. E non poteva essere altrimenti. Gli incentivi a pioggia hanno favorito la stabilizzazione dei profili più esperti e competenti anziché promuovere il primo impiego e la formazione dei giovani. La legge Fornero, che ha innalzato i limiti pensionistici, ha fatto il resto. È vero che i dati sull’apprendistato sono in crescita, ma dopo essere precipitati nel 2015 perché resi meno convenienti (costano 1.000-1.200 euro al mese) dalla presenza degli incentivi al massimo livello.
Uno studioso del mercato del lavoro come Francesco Seghezzi di Adapt si è preso la briga di monitorare in profondità l’andamento dell’occupazione giovanile. Ha constatato il sostanziale fallimento di Garanzia Giovani, programma finanziato con 1,5 miliardi dell’Unione Europea. Secondo i dati aggiornati a giugno, ha offerto soltanto 225 mila opportunità di lavoro tra cui 167 mila tirocini. Questi ultimi, in generale — il cui costo è tra i 400-500 euro a seconda delle regioni — si trasformano in contratti stabili solo all’11 per cento. Molte aspettative, larghi entusiasmi, troppe delusioni.
Terapie possibili. L’alternanza scuola-lavoro è un’ottima risposta, ma andrebbe estesa avvicinando di più i ragazzi alla concretezza della vita aziendale, terzo settore e volontariato compresi. E dovrebbe essere vissuta da tutti gli insegnanti come una preziosa opportunità offerta agli studenti. A volte è considerata un fastidioso intralcio ai programmi. Quanto alle imprese, la maggiore apertura alla formazione dei giovani non può essere misurata solo con il metro del costo del lavoro. Combattere il senso di esclusione e di ingiustizia dei giovani — che alimenta estraneità e voglia di fuggire — dovrebbe essere un’emergenza nazionale. Non lo è, purtroppo. A riprova che siamo un Paese prigioniero degli egoismi generazionali. Intanto il debito pubblico, che pagheranno figli e nipoti, cresce indisturbato.