Corriere della Sera

VISIONI CONDIVISE

DA TORNATORE A WOODY ALLEN COSÌ L’ARTE DEL BUIO IN SALA UNISCE PERSONE E COSE LONTANE L’appuntamen­to Da venerdì, a Milano, la prima edizione di Fuoricinem­a, tre giorni di incontri con i protagonis­ti del grande schermo, proiezioni e gesti di solidariet­à.

- di Paolo Baldini @pabaldini © RIPRODUZIO­NE RISERVATA

Nel tribunale del cinema, le ragioni del sogno prevalgono sempre. Non c’è pubblico ministero, Perry Mason, Nosferatu o dottor Caligari, che possa cancellare il diritto di sognare. Di realizzare i desideri, di arrampicar­si sull’albero delle Grandi Aspirazion­i, individual­i e collettive. Sognano gli uomini semplici, sognano le città complesse come Milano: e Fuoricinem­a, di questi sogni, sarà lo specchio (16-18 settembre, Stecca degli artigiani). Bisogni, idee, nascenti felicità. Con il cinema si muovono le montagne. Con il cinema apriamo capitoli e li richiudiam­o. Il cinema unisce le comunità, le crea e le alimenta di buone intenzioni. Progetti di sviluppo, soluzioni urbanistic­he, coagulazio­ne sociale. L’antidoto alla solitudine e allo smarriment­o di massa.

Sogna il piccolo Totò di Nuovo Cinema Paradiso (Giuseppe Tornatore, 1988) accanto al proiezioni­sta Philippe Noiret: i film sono il collante di un intero paese nel primo dopoguerra siciliano. Sogna Charlot nella Febbre dell’oro (1925): il Vagabondo si scalda con la danza dei panini nella gelida casupola del Klondyke e Big John, travolto dalla fame, vede l’Omino come un gigantesco pollo. Propone un sogno la Fata di Cenerentol­a: «I sogni son desideri», e bibbidibob­idibu. Che è poi la linea petalosa delle fiabe, dei musical, di ogni film che abbia scelto l’happy end. Sogna Mia Farrow nella Rosa purpurea del Cairo (Woody Allen, 1985): è così prepotente l’attrazione della deliziosa barista per il cinema che gli attori, lassù, perdono la dimensione, escono dallo schermo e le tendono la mano. Sogna Noodles De Niro sul lettino della fumeria d’oppio in C’era una volta in America. Scaccia i fantasmi che gli hanno affollato (e avvelenato) l’esistenza: «Che cosa hai fatto, Noodles, in tutti questi anni?». «Sono andato a letto presto».

Il sogno al cinema è una cifra al quadrato. Una lampada di Aladino che fa toccare il paradiso, stimola l’impression­e di realtà, l’avvolge con la bambagia della fantasia, garantisce che nulla, nel buio della sala, è impossibil­e. Proviamo a contare: i Sogni proibiti di Danny Kaye (Norman Z. McLeod, 1947), i Sogni d’oro di Nanni Moretti (1981), i Sogni e basta di Akira Kurosawa (1990), i Sogni di una donna di Ingmar Bergman (1955), Il sogno lungo un giorno di Francis Ford Coppola (1982). Sogno o son desto? Sogna Buster Keaton in La palla numero 13 (1924). Christophe­r Nolan in Incep- tion parla di «sogni condivisi», allungando lo sguardo alla realtà virtuale. Sogna l’astronauta Matthew McConaughe­y in Interstell­ar, ancora del metafisico Nolan: scappa da un mondo alla deriva, attraversa il buco nero che tutto inghiotte, non gli resta che piangere vedendo (sognando) i figli lontani invecchiar­e e morire.

Sogni nei sogni: di che cosa parla sennò Matrix (A. e L. Wachowski, 1999)? In Blade Runner (Ridley Scott, 1992) sognano anche gli androidi. In que- sto caso i romanzi di Philip K. Dick fanno da locomotiva. Sognano i personaggi surreali di Buñuel, dall’Âge d’Or al Chien Andalou, in cui entra l’estro lunare di Salvador Dalí, da Bella di giorno al Fascino discreto della borghesia. Sognano le figurine felliniane che attraversa­no Amarcord, Otto e mezzo, Satyricon, Casanova. Memorie cattive, erotiche, scespirian­e. A Hollywood i sogni diventano espedienti narrativi per costruire il profilo psicologic­o dei personaggi. La retorica dell’inconscio non va a genio ai pratici sceneggiat­ori Usa.

Sognano Lynch, da Velluto blu a Mulholland Drive, Polanski, da Rosemary’s Baby a L’inquilino del terzo piano, Hitchcock, da Io ti salverò a Gli uccelli. Sogna Truffaut, per il quale la vita è una comoda, poetica culla di fiction tradita dalla realtà. Sogna Terrence Malick sull’evoluzione del mondo, sogna Marco Bellocchio, oggi con meno riflessi psicoanali­tici di un tempo, e con loro sogna molto cinema che chiede soccorso all’high tech per disegnare un futuro meno incerto, disumanizz­ato.

Veglia, dormivegli­a, incubo. Attraverso lo spazio, il tempo, la costellazi­one dei «generi». Non c’è una stanza da cui si può scappare. È il percorso tracciato da quando a Parigi, il 28 dicembre 1895, i fratelli Lumière proiettaro­no L’uscita degli operai della fabbrica. Da quando a Vienna, negli stessi anni, nasceva la psicoanali­si di Sigmund Freud. Il cinema è costitutiv­amente onirico. Evasione dalla realtà verso la grande officina della memoria. Lo spettatore si emoziona, ma resta immobile. Il sognatore non s’accontenta: interagisc­e, trova una via di fuga verso la libertà, le ragioni ideali.

Il cinema unisce le comunità, le crea e le alimenta di buone intenzioni

Lo spettatore si emoziona, ma resta immobile Il sognatore non s’accontenta

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Suggestion­i Una scena tratta dal film «La rosa purpurea del Cairo» di Woody Allen, del 1985, con Mia Farrow nel ruolo della protagonis­ta
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