Oncologo
Umberto Veronesi, 90 anni, milanese, è uno dei pionieri della lotta contro i tumori in Italia
La nascita di Louise Brown, prima bambina in provetta, nel 1978, poi la clonazione della pecora Dolly, nel 1996, e ora l’esperimento dei ricercatori inglesi che fa ipotizzare la possibilità di un concepimento senza l’ovulo materno: progressi scientifici che hanno aperto un ampio dibattito etico sulla procreazione. Ne parliamo con Umberto Veronesi, scienziato di fama mondiale.
Professor Veronesi come vede questo nuovo passo avanti dal punto di vista etico?
«La procreazione è stata un’area intoccabile fino alla nascita di Louise Brown. All’epoca Robert Edwards, l’ideatore della tecnica di fecondazione in vitro, dichiarò che il successo di quella nascita oltrepassava il problema della fertilità per entrare nel campo dell’etica del concepimento: “Volevo scoprire — disse — chi fosse davvero al comando, se Dio stesso o gli scienziati, e ho dimostrato che noi eravamo al comando”. Le discussioni sono state infinite, ma il quesito è uno solo: a chi appartiene la vita e chi ne è padrone? Per l’etica cristiana appartiene a Dio, nascita e morte sono nelle sue mani e l’uomo non deve intervenire. Se seguiamo questa etica, la procreazione dovrebbe tornare ad essere un tabù tout court: dalla ormai classica fecondazione in vitro, fino alle sperimentazioni più avanzate, come questa».
L’ipotesi è che potrebbe permettere ai gay di procreare. Che cosa ne pensa?
«L’omosessualità è una variante naturale della sessualità, sempre esistita, che ha avuto sorti diverse, promossa o vituperata, in relazione alla cultura predominante. Non c’è motivo, dunque, per cui, se la scienza fa effettivamente un passo avanti, i gay, come tutti gli altri, non ne possano usufruire, se vogliono».
Qualcuno osserva che con queste nuove tecniche, la donna potrebbe perdere una delle sue prerogative più importanti: la capacità procreativa.
«Dal punto di vista sociale ed evolutivo perdere l’esclusiva della procreazione potrebbe non essere uno svantaggio perché la donna si libererebbe del tratto potenzialmente riduttivo della “buona fattrice”. La sua posizione di indipendenza e forza intellettuale ne risulterebbe valorizzata. Ma tutto fa pensare che, pur avendone la possibilità, la maggior parte delle donne non rinuncerebbe alla gioia di essere madre».
Lucetta Scaraffia, torinese, 68 anni, è professore associato di Storia contemporanea presso l’Università «La Sapienza» di Roma
Si è occupata soprattutto di Storia del cristianesimo, storia delle donne e della religiosità femminile
«Perché? Perché? Perché devono arrivare a questo?».
Lucetta Scaraffia, dal 2007 membro del Comitato nazionale di bioetica, non si rassegna all’ipotesi di un futuro in cui basteranno uno spermatozoo e una cellula della pelle per generare un bambino.
Allora ci dica perché no.
«Anzitutto perché non conosciamo gli effetti psicologici, medici o evolutivi sui bambini “fabbricati” così. Banalmente, non sono stati studiati neppure quelli sui figli concepiti in provetta».
Come mai, secondo lei?
«È difficile farlo perché molti genitori che si rivolgono ai centri di procreazione assistita, una volta che la gravidanza va a buon fine, spariscono. E davanti agli altri negano sempre. Eppure secondo alcuni pediatri i bambini nati con la fecondazione assistita si ammalano con più facilità rispetto agli altri».
Di fatto, la ricerca svolta a Bath rappresenta una speranza per le coppie omosessuali, che in teoria potrebbero riuscire a generare un figlio attraverso il patrimonio genetico di entrambi i partner, senza bisogno di altro.
«Intanto ci dimentichiamo che quell’embrione, ammesso e non concesso che si riesca a produrre, avrà bisogno di un utero in affitto. Quindi non si prescinderà da uno sfruttamento del corpo della donna, che viene ridotta a un forno. Ma non è tutto».
Cos’altro?
«La cosa più grave è che stiamo ignorando i diritti del bambino e lo stiamo trattando come un oggetto di fabbricazione. È terribile voler far prevalere su tutto la legge del desiderio».
Gli scienziati dicono che il nuovo tipo di concepimento avvantaggerebbe anche le donne non più giovani o scampate a una malattia, perché la cellula epiteliale si rinnova sempre.
«E perché mai una donna dovrebbe diventare madre a 60 anni? Per essere già vecchia quando il figlio ne avrà venti? E come farà a svegliarsi di notte per accudirlo? Come è giusto che una dodicenne non debba partorire, lo stesso vale per una signora anziana».
Il cambiamento Tutto iniziò con la fecondazione in vitro e l’ideatore, Edwards, si chiese chi fosse davvero al comando: Dio o gli scienziati
Non vede proprio nessuna utilità in questa ricerca britannica?
«Io credo che la ricerca debba fare altro, per esempio studiare come possiamo curare le malattie. Le cose della vita sono queste: la fatica, l’amore, la relazione umana, tutte cose che non si possono ricreare artificialmente in laboratorio».