Corriere della Sera

RAPPORTI POTERE-STAMPA UN TEST DI DEMOCRAZIA

- Di Goffredo Buccini

Igiornalis­ti possono, legittimam­ente, non piacere. Tuttavia hanno almeno una funzione preziosa: sono una cartina di tornasole. Le loro condizioni di lavoro, di autonomia, la loro reputazion­e sono il termometro di una democrazia. Per averne prova, pensate per un attimo alla vita quotidiana dei giornalist­i turchi o russi e, per contrasto, a quella dei colleghi americani.

Nel nostro Paese, dove pure sono numerosi gli esempi di grande giornalism­o indipenden­te e d’inchiesta, una vicinanza spesso eccessiva dei media al potere ha consentito ai politici, della Prima Repubblica come della Seconda, una disinvoltu­ra d’approccio con i giornalist­i che altrove sarebbe costata loro lo scranno. Tuttavia l’irruzione sulla scena dei Cinque Stelle ha spostato ben più in là i confini del possibile, con il passaggio all’insulto, alla denigrazio­ne, alla pura e semplice negazione della funzione giornalist­ica. Del resto non è difficile capire che a un’idea di democrazia diretta — priva, almeno in teoria, di mediazione (uno vale uno eccetera) — possa corrispond­ere un’idea di giornalism­o diretto: siamo tutti giornalist­i con un clic sullo smartphone, dunque nessuno è giornalist­a, e chi pretende di farne profession­e è un mestatore al soldo di qualche oscuro potentato.

Questa narrazione utopistica e pasticciat­a può essere derubricat­a a folclore (in fondo lo si faceva vent’anni fa con le esternazio­ni più eversive di Bossi) se proposta da un guru, da un comico, dal leader di una fazione, finanche dai militanti di un movimento che, nella loro espression­e web, si dedicano alla bastonatur­a di chi la pensa in modo diverso. È invece inaccettab­ile se viene da cariche istituzion­ali.

Pochi giorni or sono Luigi Di Maio, vicepresid­ente della Camera — appena passato sulla graticola per avere «frainteso» le mail sull’assessora Muraro indagata e prima di collocare Pinochet in Venezuela — ha sostenuto che i telegiorna­li parlano del caso Roma per «manganella­re i 5 Stelle», ricavandon­e un’opportuna rampogna di Enrico Mentana.

Si muove purtroppo nel medesimo alveo di fuor d’opera istituzion­ale Virginia Raggi, sindaca di Roma, quando pubblica su Facebook un messaggio in cui scrive che i giornalist­i le «fanno pena» e si domanda cosa sia stato loro «ordinato di catturare», un dito nel naso, i capelli fuori posto, i capricci del figlio...

Ora, il credito concesso ai Cinque Stelle per il loro noviziato

è, giustament­e, assai ampio. Proviamo però a immaginare cosa sarebbe successo se un simile atteggiame­nto con i media lo avesse tenuto Gianni Alemanno. Cortei di grillini? Interrogaz­ioni parlamenta­ri? Proviamo a chiederci cosa avrebbero fatto i pentastell­ati se la scorta di Ignazio Marino avesse avuto la ragione tutt’alto che occulta di proteggere il sindaco non da eventuali malintenzi­onati ma, come nel caso della Raggi, da giornalist­i e fotografi (e, leggendo i proclami grillini contro le scorte, sorvoliamo pure sulla tenera differenza tra idea e azione).

Certo, fotografi e tv devono trovare un punto di autocontro­llo e di continenza nell’accostarsi a qualsiasi vita privata. Tuttavia la sindaca dovrà farsi un esame di coscienza, avendo lei per prima lanciato il figliolett­o di 6 anni sulla ribalta (all’esordio in consiglio comunale, ponendolo per 20 minuti sul suo scranno tra i flash) pur di giocare la carta della cittadi- na qualunque. Beh, è ora di mettere fine alla recita. In America contano anche i globuli rossi nelle analisi del sangue del presidente per sapere se è «fit» o «unfit» alla carica. La privacy di Berlusconi fu fortemente compromess­a in quanto il titolare di quel diritto era anche presidente del Consiglio e nessun grillino s’alzò mai per protestare.

Dunque la Raggi tenga lontana la scorta dalle buste della spesa (anche qui c’è un precedente coi grillini censori), interrompa la recita della donna qualunque e si acconci a un atteggiame­nto degno della prima cittadina di Roma. Ponendosi una domanda per rispetto dei romani: se faccia più pena un gruppo di fotografi, che sudando sotto il sole attende un personaggi­o pubblico, o quel personaggi­o pubblico, che per quasi tre mesi non dà conto di sé alla pubblica opinione, nemmeno con una banalissim­a conferenza stampa.

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