RAPPORTI POTERE-STAMPA UN TEST DI DEMOCRAZIA
Igiornalisti possono, legittimamente, non piacere. Tuttavia hanno almeno una funzione preziosa: sono una cartina di tornasole. Le loro condizioni di lavoro, di autonomia, la loro reputazione sono il termometro di una democrazia. Per averne prova, pensate per un attimo alla vita quotidiana dei giornalisti turchi o russi e, per contrasto, a quella dei colleghi americani.
Nel nostro Paese, dove pure sono numerosi gli esempi di grande giornalismo indipendente e d’inchiesta, una vicinanza spesso eccessiva dei media al potere ha consentito ai politici, della Prima Repubblica come della Seconda, una disinvoltura d’approccio con i giornalisti che altrove sarebbe costata loro lo scranno. Tuttavia l’irruzione sulla scena dei Cinque Stelle ha spostato ben più in là i confini del possibile, con il passaggio all’insulto, alla denigrazione, alla pura e semplice negazione della funzione giornalistica. Del resto non è difficile capire che a un’idea di democrazia diretta — priva, almeno in teoria, di mediazione (uno vale uno eccetera) — possa corrispondere un’idea di giornalismo diretto: siamo tutti giornalisti con un clic sullo smartphone, dunque nessuno è giornalista, e chi pretende di farne professione è un mestatore al soldo di qualche oscuro potentato.
Questa narrazione utopistica e pasticciata può essere derubricata a folclore (in fondo lo si faceva vent’anni fa con le esternazioni più eversive di Bossi) se proposta da un guru, da un comico, dal leader di una fazione, finanche dai militanti di un movimento che, nella loro espressione web, si dedicano alla bastonatura di chi la pensa in modo diverso. È invece inaccettabile se viene da cariche istituzionali.
Pochi giorni or sono Luigi Di Maio, vicepresidente della Camera — appena passato sulla graticola per avere «frainteso» le mail sull’assessora Muraro indagata e prima di collocare Pinochet in Venezuela — ha sostenuto che i telegiornali parlano del caso Roma per «manganellare i 5 Stelle», ricavandone un’opportuna rampogna di Enrico Mentana.
Si muove purtroppo nel medesimo alveo di fuor d’opera istituzionale Virginia Raggi, sindaca di Roma, quando pubblica su Facebook un messaggio in cui scrive che i giornalisti le «fanno pena» e si domanda cosa sia stato loro «ordinato di catturare», un dito nel naso, i capelli fuori posto, i capricci del figlio...
Ora, il credito concesso ai Cinque Stelle per il loro noviziato
è, giustamente, assai ampio. Proviamo però a immaginare cosa sarebbe successo se un simile atteggiamento con i media lo avesse tenuto Gianni Alemanno. Cortei di grillini? Interrogazioni parlamentari? Proviamo a chiederci cosa avrebbero fatto i pentastellati se la scorta di Ignazio Marino avesse avuto la ragione tutt’alto che occulta di proteggere il sindaco non da eventuali malintenzionati ma, come nel caso della Raggi, da giornalisti e fotografi (e, leggendo i proclami grillini contro le scorte, sorvoliamo pure sulla tenera differenza tra idea e azione).
Certo, fotografi e tv devono trovare un punto di autocontrollo e di continenza nell’accostarsi a qualsiasi vita privata. Tuttavia la sindaca dovrà farsi un esame di coscienza, avendo lei per prima lanciato il figlioletto di 6 anni sulla ribalta (all’esordio in consiglio comunale, ponendolo per 20 minuti sul suo scranno tra i flash) pur di giocare la carta della cittadi- na qualunque. Beh, è ora di mettere fine alla recita. In America contano anche i globuli rossi nelle analisi del sangue del presidente per sapere se è «fit» o «unfit» alla carica. La privacy di Berlusconi fu fortemente compromessa in quanto il titolare di quel diritto era anche presidente del Consiglio e nessun grillino s’alzò mai per protestare.
Dunque la Raggi tenga lontana la scorta dalle buste della spesa (anche qui c’è un precedente coi grillini censori), interrompa la recita della donna qualunque e si acconci a un atteggiamento degno della prima cittadina di Roma. Ponendosi una domanda per rispetto dei romani: se faccia più pena un gruppo di fotografi, che sudando sotto il sole attende un personaggio pubblico, o quel personaggio pubblico, che per quasi tre mesi non dà conto di sé alla pubblica opinione, nemmeno con una banalissima conferenza stampa.