LA LEZIONE (DI RIGORE E PASSIONE) NELLA VITA E NEL LAVORO
Il segreto dell’autrice a dieci anni dalla morte: un pezzo di sé in ogni inchiesta o romanzo
Qualche giorno fa, nel corso dello speciale televisivo che Enrico Mentana ha dedicato a Oriana Fallaci a dieci anni dalla scomparsa, l’hashtag #OrianaFallaci, in rete, divideva due fazioni molto chiare e distinte: quelli che «era una fanatica intollerante» e quelli che «no, è stata profetica, dell’islam aveva capito tutto». L’umore massimalista e inflessibile dei social network ha dunque recepito con naturalezza (quasi con un senso di affinità) «l’ultima Fallaci», quella del rigore intransigente, consapevolmente coltivato dopo l’11 settembre, quando scelse di schierarsi dalla parte dell’Occidente con una furia cieca eppure lucida.
Furia che ha finito per eclissare non solo la grande giornalista, ideatrice di un modello di intervista esportato in tutto il mondo; non solo la scrittrice capace di trasformare un amore (quello per il rivoluzionario greco Alekos Panagulis) in un romanzo epico e politico al tempo stesso, Un uomo; non solo l’intellettuale che — tra i primi — comprese e condannò la politica estera americana, ai suoi occhi affetta da una forma di neocolonialismo. Ma quella rabbia ormai diventata quasi slogan (o hashtag) rischia di far dimenticare tante altre Fallaci che andrebbero riscoperte. Per esempio la Oriana innamorata: uno spettacolo di parole, contraddizioni, ripensamenti, scoppi d’ira, tenerezze («Conservo nella mia bocca un tuo chewingum, e lo assaporo come fosse un tuo bacio», scrive a François Pelou). O la Oriana tessitrice paziente di grandi e lunghe amicizie. Oppure la Oriana che si improvvisa figlia preoccupata per le tensioni della mamma lontana. Sbaglia chi pensa che tutte queste sfumature caratteriali e professionali siano parti estranee dall’opera di Fallaci, anzi. Ne sono intima sostanza, linfa, quasi un nutrimento vitale che ogni aspirante giornalista, scrittore, analista o blogger dovrebbe conoscere.
Così la scelta di aprire la collana proposta dal «Corriere della Sera», nell’anniversario della morte, con un volume di lettere private, appare azzeccata e persino risarcitoria. La paura è un peccato. Lettere da una vita straordinaria, con la prefazione dell’amato nipote Edoardo Perazzi, è una raccolta di missive che hanno contrassegnato la sua intera vita adulta, dagli esordi toscani fino al ritiro newyorkese. E non è solo un’incursione nella Oriana più intima, ma è una mappa nell’analisi della sua opera, un viatico per gli altri libri che si susseguiranno in edicola a cadenza settimanale. Perché nei suoi romanzi, nei saggi e negli scritti con i quali accompagnava le richieste di interviste (veri e propri manuali giornalistici che andrebbero studiati dagli apprendisti del mestiere nelle scuole di formazione, anche oggi) c’è molto materiale che nasceva nella composizione delle lettere.
La disciplina nel richiedere la puntualità di una consegna è la stessa con la quale sceglieva le parole per scrivere Un uomo (il secondo volume della collana). La pietà con la quale descrive
la sua Firenze devastata ma non piegata dall’alluvione del 1966 (forse la missiva più bella: «Voglio dire: la città è morta e loro si comportano come se fosse viva») è la stessa che la spinse a redigere Lettera a un bambino mai nato, straordinario e preveggente monologo sui diritti di chi nasce, sul libero arbitrio in un mondo che ha sostituito gli dèi con il moralismo.
Forse la vera grande lezione giornalistica di Oriana sta proprio in questo mettere un pezzo di sé in ogni articolo, inchiesta, lettera, romanzo. E dicendo «un pezzo di sé» intendiamo in senso letterale: un accesso di rabbia, un ricordo scomodo, un’imprecazione toscana, un amore guasto o un amore in fiore in lei non sono meno importanti della verifica delle fonti, della conoscenza dei fatti in presa diretta, dell’ormai mitico magnetofono e dell’ossessione per la forma letteraria. Quei frammenti di sé che metteva negli scritti possono essere scambiati per banale autoreferenzialità solo da chi si è limitato a leggere le sue opere più recentemente famose e controverse. È solo conoscendo l’opera completa della scrittrice — con pazienza, senza fretta, centellinando le parole e alternando i generi, dalle lettere ai romanzi — che si arriva a comprendere il peso che lei dava a sentimenti come l’amicizia, l’amore filiale e l’odio.
Un peso non tanto emotivo quanto narrativo, che contribuì a edificare un modello giornalistico oggi tra i più resistenti, anche all’estero, poiché i libri di Fallaci restano tra quelli più tradotti nel panorama italiano. La lettera sdegnata
che inviò a Fidel Castro quando lui cancellò un’intervista con lei (motivandola con un comportamento poco riverente nei suoi confronti) è parte fondante del rigore con il quale scrisse
Niente e così sia, testimonianza della guerra in Vietnam. E quella fedeltà quasi rabdomantica con la quale scriveva lettere lunghe, minuziose, affettuose agli amici cari è la stessa con la quale si appassionò al sogno americano di andare sulla Luna, culminato nel reportage Se il sole muore.
Questa continua osmosi tra umoralità e rigore nella ricerca delle prove, questo basculare affascinante tra personalizzazione della notizia e rivendicazione di trascrizioni fedelissime dal magnetofono, sono tra le lezioni più sottili che la maestra Oriana ha potuto lasciarci. In un tempo in cui l’informazione fa i conti con le esigenze di un aggiornamento rapido a discapito dell’approfondimento, lei ci insegna a non perdere mai di vista le nostre convinzioni. E nell’era della sfiducia nei confronti delle fonti tradizionali (giornali, televisioni e settimanali) ci ricorda il valore aggiunto di questo mestiere rispetto ai blog e ai commenti in 140 caratteri: l’appartenenza (interna o esterna) a una testata ci dà «il coraggio di non dire tutto perché non si riesce mai a dire tutto… Proprio perché, avrebbe detto lo zio Bruno, chi offende il lettore non è uno scrittore».