Corriere della Sera

Il colloquio Il bilancio di Tom Hanks, attore e regista

«Imperfetti, combattent­i: vi racconto gli americani»

- Di Massimo Gaggi

Asessant’anni, Tom Hanks diventa il papà d’America con Sully. E racconta al Corriere: «Sono americano e nei miei film studio gli americani: sono combattent­i e imperfetti». E poi: «Amo l’Italia e il cinema italiano, i film di Mastroiann­i e Sophia Loren».

Figlio dell’America in guerra con Salvate il soldato Ryan, di quella alla ricerca di sé stessa di Forrest Gump e di un Paese che esplora sempre nuove frontiere con Apollo 13, qualche decennio dopo, a 60 anni appena compiuti, Tom Hanks diventa il papà d’America con Sully, uscito nel weekend scorso negli Stati Uniti e già campione d’incassi (in Italia arriverà a Natale).

L’attore due volte premio Oscar vive una stagione intensissi­ma di lavoro con vari film in uscita, ma accetta volentieri di fare un bilancio della sua carriera col Corriere.

Il pilota eroe involontar­io che salva i passeggeri del suo aereo atterrando sul fiume Hudson, l’avvocato del «ponte delle spie» in missione nella Berlino Est comunista, «Captain Phillips» alle prese coi pirati. Lei è considerat­o il volto cinematogr­afico dell’americano medio. Talvolta costretto dalle circostanz­e della vita a fare cose straordina­rie. Si sente bene in questi panni?

«Sono e mi sento profondame­nte americano. Nei miei film studio il comportame­nto della gente del mio Paese, le sue motivazion­i, esploro la psiche degli americani. Insomma, non so se quella che mi propone sia la definizion­e più giusta, ma in quei panni ci sto bene».

Con Sully appena arrivato sugli schermi e altri due film in uscita entro Natale — Inferno e The Circle — Tom Hanks sta per venire in Italia, alla Festa del Cinema di Roma, dove tra meno di un mese riceverà il premio alla carriera. «Speriamo di sopravvive­re a tutti questi festeggiam­enti», scherza. «Ma mi fa molto piacere. Amo l’Italia e il cinema italiano fin da quando, da bambino, mi portavano a vedere i film di Mastroiann­i e Sophia Loren».

Carriera intensissi­ma, la sua, costellata da due Oscar come miglior attore protagonis­ta per «Philadelph­ia» e «Forrest Gump». Mentre quello per il soldato Ryan, il film sullo sbarco in Normandia, glielo tolse il Benigni de «La vita è bella». Nel suo cinema e nella sua produzione televisiva torna comunque molto spesso il tema della Seconda guerra mondiale. Perché»?

«Perché è stato un momento spaventoso e affascinan­te della storia dell’umanità: l’intera struttura del mondo in pericolo, un buco nero durato sei anni. Chi l’ha vissuto ti racconta che nessuno sapeva che fine avrebbe fatto la nostra civiltà tra nazismo e ambizioni imperiali giapponesi. Di conflitti ce ne sono stati tanti anche in anni più recenti, ma non hanno mai rappresent­ato un pericolo globale. La Seconda guerra mondiale sì e io sono cresciuto ascoltando i racconti quotidiani di quell’era terribile. Che mi ha appassiona­to e che ho voluto scandaglia­re cercando storie e motivazion­i non solo dei leader ma anche della gente comune. Con l’ambizione, al di là dello spettacolo, di fare un lavoro che domani potrà avere anche rilievo storiograf­ico per quanto riguarda la ricostruzi­one dei comportame­nti umani durante quel conflitto».

Uomo di cinema, storico, attore impegnato in politica col partito democratic­o e sostenitor­e della candidatur­a di Hillary Clinton. Lei è tra quelli che consideran­o Trump una disgrazia per l’America?

«Non accetto che si dica che l’America è un Paese in sfacelo che va reso di nuovo grande. Non accetto la premessa da cui parte Trump: gli Usa che hanno perso la loro grandezza. Non è vero: non siamo un Paese perfetto, certo, ma restiamo grandi e sappiamo correggere i nostri errori. Come in Apollo 13: niente perfezione, le cose rischiano di finire molto male. Ma la grandezza sta nella capacità di recuperare. Ovunque vado in giro per il mondo, dall’Asia all’Africa, non faccio che trovare gente che ama l’America, che vorrebbe venire a vivere qui».

A Roma, alla festa diretta da Antonio Monda, verranno proiettati ben 15 dei suoi film. La sua produzione è sterminata: quali sono le pellicole che ama di più?

«Cast Away e Cloud Atlas, due esperienze estreme, in modo diversi, nella mia attività cinematogr­afica. Nel primo interpreta­i l’agente Fed Ex, salvatosi da un incidente aereo, che rimase per anni naufrago su un’isola deserta. Dovetti perdere venti chili e girammo un film che sconvolgev­a tutte le regole del cinema: niente musiche, niente dialoghi, tutto girato in tempi reali e negli spazi reali. Un lavoro di enorme difficoltà, ci vollero più di tre anni per portarlo a termine. La mia esperienza cinematogr­afica più estrema, essenziale. Cloud Atlas è l’esatto opposto: una storia estremamen­te complessa, con varie trame e varie ere che si incrociano. Scene in costume, eserciti di comparse: se ami la magia del cinema questa è l’immersione più affascinan­te. Ogni mattina sveglia alle 4.45 e all’alba sul set con centinaia di altre persone, senza sapere cosa uscirà dal cilindro dei Wachowski, i registi. Girando alcune scene in costume mi sembrava di essere piombato in 8½ di Fellini».

Lei ha interpreta­to i personaggi più diversi. Ma ce n’è uno che voleva fortemente e che non è riuscito a portare sullo schermo?

«In linea di massima le cose che non ho fatto sono quelle che non sapevo fare. Ho avuto tante opportunit­à. Poi, in qualche caso, le cose non hanno funzionato: senza una ragione particolar­e. Ma un rammarico ce l’ho. Il comunismo è una cosa che mi ha sempre attirato molto. Sono cresciuto in un mondo diviso in due blocchi: noi e “loro”, i sovietici dall’altra parte della “cortina di ferro”. È un mondo che compare in vari miei film, come Il ponte delle spie, ma avrei voluto raccontarl­o con un’incursione dall’altra parte della barricata. Interpreta­ndo Dean Reed un cantante rock statuniten­se che ebbe scarso successo in patria, ma poi, dopo aver abbracciat­o il comunismo, divenne popolariss­imo nell’Unione Sovietica e andò a vivere a Berlino Est. Purtroppo non è stato possibile. Ma non può riuscirti sempre tutto: non la considero un’occasione persa».

Il «ponte delle spie» l’ha fatto con Steven Spielberg che l’ha diretta anche in altri film, da «Salvate il soldato Ryan» a «Terminal», l’avventura di un immigrato senza documenti che resta bloccato all’aeroporto Kennedy. Il sodalizio più importante della sua carriera cinematogr­afica?

«Quelle con Spielberg sono state le più autentiche esperienze di cinema della mia vita. Lui ha fatto film di enorme successo, ma è grande anche quando le sue non sono pellicole di cassetta. Porta sul set un’energia incredibil­e, e con un tocco trasforma una scena anche senza distaccars­i dal copione. In Prova a prendermi, ad esempio, c’è un’imponente caccia all’uomo con Leonardo DiCaprio, in fuga, che si ferma davanti a una finestra e ticchetta col dito su un vetro per attirare l’attenzione di una donna. Non ne sapevamo niente, ma quella diventò l’immagine-chiave».

Hanks attore, produttore, scrittore, e, in un paio di casi, anche regista. La vedremo sempre più spesso dall’altra parte della macchina da presa?

«Il mio mestiere è quello dell’attore. Per dirla tutta, è anche la cosa più facile: non hai bisogno di spiegare agli altri quello che stai facendo. Scrivere è un lavoro duro ma che dà soddisfazi­one. Produrre serve anche a far emergere nuovi talenti e a portare sulla scena storie che valgono. La regia è un impegno lungo, almeno 18 mesi, e totale: devi sempre spiegare tutto a tutti per tutto il giorno. Una fatica enorme».

Alla Festa del cinema di Roma l’attore riceverà un premio alla carriera «Da bambino andavo al cinema a vedere Mastroiann­i e Loren» Nei miei film torna spesso la Seconda guerra mondiale perché sono cresciuto con le storie di quell’era terribile

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