«Sono strumenti senza prezzo Li ho fatti diventare parte di me»
Tutti i violinisti sognano di suonare uno Stradivari, almeno una volta nella vita. Per la quasi totalità di loro rimane una chimera, per pochi eletti diventa addirittura il quotidiano strumento di lavoro (quello del concertista di fama planetaria).
Vadim Repin non aveva ancora iniziato a fantasticare che già se lo era ritrovato in mano, incoronazione di un talento precoce e folgorante che ha fatto del 46enne siberiano uno dei virtuosi più celebrati al mondo. Ed è stato così a lungo in compagnia di Stradivari, da aver voluto provare, almeno una volta, un Guarneri del Gesù.
La sua prima volta con uno Stradivari?
«Avevo 11 anni, in Unione Sovietica c’era una collezione di Stato e mi diedero un violino tre quarti, costruito probabilmente per un bambino come me o per una dama dalle mani piccole. Allora non capivo quanto valore potesse avere, ma ebbi ben chiara una cosa: non avevo mai sentito un suono come quello. Mi sentii benedetto da Dio».
Altri Stradivari?
«Fino al 2005 ho praticamente suonato sempre degli Stradivari, l’ultimo era il Ruby del 1708 appartenuto, tra gli altri, al grande virtuoso e compositore Pablo De Sarasate. Ovviamente non potevo permettermeli, costano troppo, ma per fortuna ho sempre trovato amici o estimatori che me li hanno messi a disposizione».
In effetti sono stimati anche svariati milioni: non le sembrano quotazioni eccessive, effetto di mode e stimolate da collezionisti danarosi?
«Su questo ho una mia teoria: non ha senso parlare di soldi perché questi strumenti non hanno prezzo. Oggi posso avere tutti i soldi e le tecnologie che voglio, ma non posso creare un nuovo Stradivari; quelli che ci sono hanno tre secoli e non potranno più essere replicati, quindi il loro valore è semplicemente infinito».
Ma che effetto le fa vederli battere all’asta come oggetti su cui investire, con l’intento magari di guadagnarci rivendendoli tra qualche anno?
«Non vorrei lanciarmi in grandi ragionamenti, preferisco stare alla mia esperienza e devo dire che l’anno scorso mi è accaduta una cosa bellissima. Sono stato invitato da Christie’s a Shanghai e Hong Kong per due aste private in cui venivano battuti Stradivari e Guarneri del Gesù. Per inserirli nel loro contesto storico e culturale erano previsti dei momenti di lettura, discussione e ovviamente ascolto, così mi sono ritrovato a poter suonare nella stessa giornata, uno dopo l’altro, otto preziosissimi violini. Un sogno!».
Stradivari e Guarneri. Un po’ come Coppi e Bartali, Callas e Tebaldi: perché passò dall’uno all’altro?
«Perché avevo sempre suonato gli Stradivari e mai i Guarneri, perché i miei idoli, da Kreisler a Menuhin e Stern, imbracciavano dei Guarneri, quindi volevo provarli; un amico mi mise a disposizione il Von Szerdahely, del 1736. Poi però sono tornato allo Stradivari: qui a Cremona mi presento con il Rode del 1733».
Qual è il migliore?
«Tra i due è impossibile dirlo. Sono diversi, gli Stradivari hanno un suono più angelico, paradisiaco, i Guarneri più umano e maschile. Ma ogni singolo strumento ha la sua personalità: ricordando le esibizioni da Christie’s ho l’impressione di un dialogo con otto persone diverse, ognuna con il suo carattere, la sua voce, i suoi gusti. Se proprio dovessi scegliere lo strumento perfetto direi comunque un Guarneri, il Cannone che appartenne a Paganini. Ma a questi livelli penso diventi una questione di gusti, come preferire le bionde alle more».
La personalità di ogni violino influisce sul suo modo di suonare?
«Sì, e molto. Quando imbraccio un violino devo capire come usarlo per ottenere i suoni ideali che ho in mente. Quando mi accorgo di tenere gli occhi chiusi vuol dire che lo strumento è diventato parte di me, il prolungamento del mio corpo, e il suono è libero di correre e inondare il pubblico».