Corriere della Sera

Giovani, brillanti, ben pagati Così tremila ricercator­i l’anno vanno (e restano) all’estero

- di Antonella De Gregorio

Ad abbandonar­e la nave sono tremila giovani all’anno, dei circa 11 mila che conseguono il titolo di dottori. Vanno via soprattutt­o se le loro discipline di riferiment­o sono Scienze fisiche (31,5%) Matematica o Informatic­a (22,4%). Meno mobili i dottori in Scienze giuridiche (7,5%), in Agraria e Veterinari­a (8,1%), dice l’Istat. Che ha fatto un identikit del dottore di ricerca che cerca fortuna all’estero, dove ci sono più opportunit­à e si fanno lavori più qualificat­i e meglio retribuiti. Proviene per lo più da famiglie del Centro-Nord, con elevato livello di istruzione ed è diventato dottore prima dei 32 anni. Se si calcola che in Italia l’età media di ingresso (meglio, di stabilizza­zione) nella profession­e è di 37 anni, e che gli scatti retributiv­i sono rimasti congelati per anni, si intuisce quanto sia difficile avere gratificaz­ioni in patria.

«Le nostre università assumono con il contagocce e i posti sono riservati a gente che è in lista da anni, tendenzial­mente allievi dei professori», dice Michele Tiraboschi, docente di Diritto del lavoro a Modena. «Una tradizione che nella sua accezione più nobile premia i migliori delle varie scuole. Ma che ha portato a una forte degenerazi­one del sistema. In Danimarca, Svezia, Giappone, Stati Uniti, non si premia la fedeltà dell’allievo, ma c’è un’effettiva competizio­ne meritocrat­ica».

Con l’associazio­ne Adapt, fondata da Marco Biagi, Tiraboschi ha lavorato a una proposta di legge per creare un mercato della ricerca privato, per dare riconoscim­ento ufficiale ai ricercator­i nelle aziende: «Ci allineereb­be alla tendenza europea e consentire­bbe di far fronte alle esigenze di crescita e sviluppo del Paese». E invece le piccole e medie imprese italiane a gestione familiare, specializz­ate in settori a medio-basso contenuto tecnologic­o, sono poco propense a investire in ricerca e sviluppo e in capitale umano.

A livello accademico sono burocrazia e baronie, più che il merito, a decidere chi fa carriera. Ecco perché i nostri ricercator­i se ne vanno. A guadagnare il doppio, a volte quattro volte più dei colleghi che rimangono, a utilizzare meglio le proprie competenze. Il mercato del lavoro nazionale «non riesce a valorizzar­e appieno il percorso formativo e il potenziale profession­ale dei dottori», conferma Almalaurea. Così vanno ad arricchire chi cresce e investe sul talento: in Gran Bretagna prevalente­mente (16,3%), negli Usa (15,7%), in Francia (14,2%), Germania (11,4%), Svizzera (8,9%). Alcuni, più avventuros­i,

Le mete Prime Gran Bretagna e Usa, poi Francia e Germania. Ma c’è pure chi finisce in Nepal

trovano le opportunit­à che l’università italiana non offre in Nepal, Cina, Finlandia. E non si tratta di «circolazio­ne» di cervelli, perché il numero di giovani che emigrano non è compensato da flussi di italiani, con pari qualifiche, che rientrano in patria. Tanto meno da cittadini di altri Paesi, di pari livello, che scelgono l’Italia. «Concorsi e insegnamen­ti in lingua italiana, pochi posti e già assegnati... Perché uno straniero dovrebbe partecipar­e?» commenta Tiraboschi.

L’altra faccia della medaglia è la certezza che l’attività di ricerca svolta in Italia sia di ottima qualità. Lo confermano i dati sui fondi Erc (i fondi europei per la ricerca) ma, tra i titolari italiani dei finanziame­nti, una quota crescente di ricercator­i li spende all’estero. Il Paese, conclude il docente, «sta rinunciand­o a qualcosa che sa fare bene, e che è più che mai essenziale per la crescita di un’economia avanzata».

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