Corriere della Sera

L’omaggio a Moro

A cent’anni dalla nascita, Mattarella evoca la sua «consapevol­ezza del valore del confronto»

- Di Marzio Breda

«Malgrado il tempo che passa quel cadavere è sempre lì». Questo ripeteva Sandro Pertini quando dal Quirinale guardava verso Monte Mario e via del Forte Trionfale, dove Aldo Moro aveva vissuto ed era stato rapito. Lo diceva avvertendo che sull’immagine esanime dell’«uomo simbolo del dramma italiano» di allora si sarebbe bloccata la memoria di tutti, finché lo Stato non avesse «ritrovato se stesso». Per quanto lo Stato abbia poi superato la prova, è successo davvero così. Infatti solo ieri, a 38 anni dal delitto delle Br e a 100 dalla nascita, si è avuto un pieno recupero della figura del presidente della Dc, troppo a lungo imprigiona­ta nella sfera della tragedia. A riproporne il profilo politico e di statista la cui parabola riassume «la fatica della democrazia», ha provveduto Sergio Mattarella con una cerimonia che, dopo il lontano e clamoroso strappo con le istituzion­i del 1978, avrà avuto il

sapore del risarcimen­to pure per la famiglia.

Un esempio in cui riferirci — «allora come oggi», ricorda il capo dello Stato — Moro lo fu su vari fronti e per diversi motivi. Dalla stagione nella Costituent­e all’attività di governo, dall’impegno sulla scena internazio­nale agli Anni di piombo, durante i quali il suo sequestro e omicidio segnarono uno spartiacqu­e. Un esempio «per il coraggio e l’apertura verso il nuovo», essendo nella classe politica di quel tempo «il meno dogmatico e il più aperto alle novità». Per il «rifiuto di ogni manicheism­o e la costante ricerca del dialogo». Per il suo «saper decidere», ma «ascoltando istanze critiche, esperienze inedite, nuovi orizzonti». E, insomma, per una salda «vocazione all’intesa e consapevol­ezza del valore del confronto». Visioni e metodi cui si è ispirato lo stesso Mattarella, nella propria formazione, e non a caso l’artefice (con Berlinguer) della solidariet­à nazionale rientra nel suo Pantheon ideale. Atteggiame­nti che — sembra il sottinteso — è piuttosto raro incontrare ai giorni nostri, dominati da delegittim­azioni incrociate e isteriche polarizzaz­ioni della lotta politica.

Certo, Mattarella esorta a non «pretendere di attualizza­re» Moro, perché scatterebb­e «il rischio di deformarlo e travisarne lineamenti e personalit­à». Tuttavia è difficile non cogliere nell’eredità che ha lasciato, per come la traccia lui, «suggestion­i» riferibili al presente. Così del resto la vedono in molti, al Quirinale, quando rievoca la sua ricerca delle «convergenz­e necessarie» all’epoca della Costituent­e, mentre si procedeva alla «costruzion­e della casa comune» (ecco il cenno alla «mediazione alta, ben diversa dal compromess­o al ribasso»). O quando spiega che per il «non conservato­re» Moro, «l’immutabili­tà», intesa come spirito di «mera conservazi­one», era inconcepib­ile in quanto sarebbe equivalsa a «una rinuncia» tale da minare le stesse basi etiche della politica. O, ancora, quando quasi en passant racconta il modo di comunicare dello statista dc, che «rifuggiva da annunci fine a se stessi o da gesti plateali che avrebbero sfiorato la realtà in modo illusorio, senza riuscire a incidervi».

Tratti di un identikit che rendono inevitabil­e qualche rispecchia­mento con l’oggi. Del resto, se si pensa a certi tentativi di reclutare Moro perfino nella campagna referendar­ia (sia sul fronte del «Sì» sia su quello del «No»), come si fa a non percepire nella riflession­e di Mattarella un vago sapore di nostalgia?

No alle «distorsion­i» Il presidente esorta a non «pretendere di attualizza­re» la figura dello statista dc

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Il comizio Aldo Moro chiude la campagna elettorale del 1963 al teatro Odeon di Milano

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