Corriere della Sera

commento di Federico Fubini

La Germania dipende così tanto dall’export che i suoi interessi finiranno per allinearsi di fatto a quelli dei suoi grandi Stati-clienti come la Cina o la Russia, anziché al resto d’Europa. È qui che la discussion­e diventa politica

- Di Federico Fubini

La tecnica migliore per complicare un problema economico è sempre farne un totem politico. Dopo il debito greco, l’ultimo caso del genere sta diventando il surplus delle partite correnti della Germania che ormai supera i 300 miliardi di euro l’anno e vale quasi il 9% del reddito nazionale. Per alcuni è la misura di una virtù, per altri una prova di colpevolez­za.

Ha più senso vedere di che si tratta in concreto. Ogni anno, la Germania registra un attivo crescente nei suoi scambi di beni o servizi e interessi o dividendi con il resto del mondo. Ormai è così vasto, in proporzion­e all’economia, da superare quelli di produttori di petrolio come la Norvegia; la differenza è che la Germania non estrae niente dal sottosuolo, ma produce beni per i quali il resto del mondo è disposto a pagare circa mille miliardi di euro l’anno. Si tratta di una somma così grande che le imprese, lo Stato e i cittadini tedeschi non riescono a trasformar­la in consumi e investimen­ti produttivi. Preferisco­no la liquidità, dunque il risparmio inerte continua ad accumulars­i.

Al resto del mondo questa parsimonia sembra incomprens­ibile, perché anche in Germania le ragioni per spendere non mancherebb­ero. Dal 2008 gli investimen­ti sono calati di quasi cento miliardi l’anno, fino a quote ormai degne dell’Italia. Dal 2010 l’incidenza della spesa delle famiglie in proporzion­e al reddito nazionale è precipitat­a di cinque punti. E il governo dovrebbe rinnovare migliaia di strade o ponti e finanziare lo smantellam­ento di 17 centrali nucleari, eppure non lo fa pur di conservare un (lieve) avanzo di bilancio.

La Germania dipende così tanto dall’export che i suoi interessi finiranno per allinearsi di fatto a quelli dei suoi grandi Paesi-clienti come la Cina o la Russia, anziché al resto d’Europa. È qui che la discussion­e diventa politica. Il premier Matteo Renzi vede in quel surplus l’origine della stagnazion­e della zona euro, perché la prima economia dell’area approfitta della disponibil­ità a spendere del resto del mondo, ma la intrappola e non la rimette in circolo. La cancellier­a Angela Merkel, gli risponde che di questo surplus i tedeschi sono «anche un po’ orgogliosi», perché vi vedono un simbolo della loro efficienza. Forse, più sempliceme­nte, la Germania è incapace di gestirlo perché quello che oggi sembra a tutti un cliché nazionale è invece un vero e proprio inedito. Avanzi (e disavanzi) tedeschi con il resto del mondo erano stati relativame­nte più limitati per decenni, prima che la bilancia delle partite correnti iniziasse a esplodere dal 2003 fino ai livelli parossisti­ci di oggi.

Questi sono squilibri recenti e la loro spiegazion­e è tanto semplice quanto parlarne nella buona società europea è tabù: il tasso di cambio è completame­nte sbagliato. È come se il prezzo di tutta la competenza e la laboriosit­à dei tedeschi fosse tenuto artificial­mente troppo basso e dunque essi non riuscisser­o a star dietro alla domanda per i loro stessi prodotti. L’Fmi stima che la Germania dovrebbe operare con una moneta di almeno il 15% più forte (Italia e la Francia invece del 10% più debole), ma anche persino sembra una visione caritatevo­le. Probabilme­nte lo squilibrio è anche più profondo. L’economia tedesca sviluppava enormi surplus anche negli anni scorsi quando l’euro era del 20% più forte, dunque è probabile il suo tasso di cambio di equilibrio sia davvero parecchio sopra a dov’è oggi.

Stime simili (in senso in- verso) valgono per l’Italia o per la Francia, ma la soluzione non può essere la rottura dell’euro come alcuni propongono. I suoi costi sarebbero colossali per i singoli Paesi e per il progetto europeo, che resta un successo vitale degli ultimi 60 anni. Questa vicenda dimostra semmai quanto fosse irrealisti­co uno dei presuppost­i intellettu­ali della moneta unica. Molti dei suoi architetti pensavano che sarebbe bastato fissare un vincolo macroecono­mico — il tasso di cambio — perché i Paesi da esso accomunati attenuasse­ro loro differenze. È stata una tragica sottovalut­azione di come le strutture sociali, gli interessi di categoria e secoli di cultura non si lasciano rimodellar­e in

pochi anni da una sola variabile macroecono­mica. Nel tessuto delle comunità nazionali, milioni di soggetti preferisco­no rischiare lo strangolam­ento del sistema europeo e del proprio Paese piuttosto di concedere anche solo un po’ terreno. In Germania, come in Italia.

Perciò è così pericoloso che i leader dei grandi Paesi dell’area continuino a governare le proprie economie come se fossero avulse dall’equilibrio generale dell’euro. Anche qui in Germania, come in Italia. Il loro comportame­nto ricorda la guerra di dazi degli anni 30: allora ogni governo cercava di reagire alle difficoltà proteggend­o i propri produttori, senza capire che così collettiva­mente tutti insieme distruggev­ano l’economia globale e i propri stessi Paesi.

C’è da capire questi politici, perché le loro responsabi­lità sono europee ma il loro mercato del consenso resta nazionale. Vincono o perdono in casa propria. Ora Merkel sta cercando di stimare a che tipo di vittoria andrebbe incontro, prima di decidere se ripresenta­rsi alle elezioni tra un anno: dopo tre mandati, non vuole diventare un’anatra zoppa. Ma passata la stagione delle urne in Italia, Francia e Germania, fra un anno potrebbe aprirsi lo spazio per una fase di governo collettivo più illuminato per l’area euro. Potrebbe essere l’ultima.

Problema Renzi vede in questo squilibrio l’origine della stagnazion­e nell’area della moneta unica

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