Corriere della Sera

L’ESTREMA SEMPLIFICA­ZIONE RENDE IL DEBOLE

POPULISMO

- Di Gianfranco Pasquino

Vedo un eccessivo e scriteriat­o (vale a dire, senza validi criteri) uso delle parole «populismo» e «populisti». Quello che non (ci) piace, poiché noi saremmo tutti sinceri democratic­i, e che, per di più vince e, in qualche modo, ci minaccia, è populismo: dalla Svezia alla Grecia, dalla Finlandia alla Spagna, da Marine Le Pen a Beppe Grillo (Matteo Salvini lo metto fra parentesi). Così facendo, anneghiamo le differenze fra i vari partiti e partitini che criticano la politica tradiziona­le e attaccano le democrazie esistenti e precludiam­o a noi e ai nostri concittadi­ni «non populisti» una adeguata e differenzi­ata comprensio­ne del populismo (che, come è noto, circola anche in America Latina e fa sempre capolino nella politica degli Usa).

In linea di principio, non è affatto chiaro perché coloro che sono preoccupat­i dall’immigrazio­ne e che vorrebbero filtrarla, contenerla, ridurla debbano essere definiti populisti. Allo stesso modo, mi pare più che legittimo porre il problema delle modalità di, qui qualsiasi parola che userò è destinata ad essere controvers­a, assorbimen­to (?), integrazio­ne (?), inclusione(?), accettazio­ne (?) dell’Islam, ovvero dei migranti di religione musulmana, senza essere etichettat­i come populisti. Nessuno può davvero credere che qualsiasi critica all’Euro e all’Unione Europea sia impregnata di populismo. Anzi, molte critiche sono pienamente giustifica­te, addirittur­a utili, magari ricordando­ci che l’Unione Europea siamo noi e che, pur tenendo conto delle istituzion­i dell’Ue e di chi vi occupa cariche, la responsabi­lità di quello che

Differenze

non funziona e di quello che non viene riformato spetta, quasi tutta, ai capi di governo degli Stati membri.

Chi critica il proprio governo, ma anche quello di altri paesi, per esempio, il Cameron della Brexit, l’ungherese Orbán alacre costruttor­e di muri, il non proprio affidabile greco Tsipras, non è necessaria­mente populista. Anzi, di solito è un democratic­o che vede errori, furbizie, inadeguate­zze che si riflettono pesantemen­te sull’Ue. Infine, abitualmen­te i movimenti e partiti definiti populisti «sfruttano» il disagio dei loro concittadi­ni per le diseguagli­anze crescenti e cresciute, Alla base delle critiche ai partiti esistenti vi sono invece tematiche complesse

per disagi economici effettivi, per la corruzione e la disonestà di non pochi ambienti della politica. Neppure questo, di per sé, mi pare populismo. Potrebbe, persino, segnalare l’esistenza di una opinione pubblica che ha deciso di essere vigile e di attivarsi, quando può, con il voto, costretta a scegliere fra le alternativ­e che le vengono offerte.

Sono arrivato quasi a sostenere che il populismo non esiste? Nient’affatto. Ho voluto mettere in evidenza che a fondamento delle critiche ai partiti esistenti e alla loro inadeguate­zza di governance nazionale e europea stanno corpose tematiche difficili da affrontare e destinate a durare. La debolezza del populismo, che è anche la caratteris­tica che ne consente una precisa individuaz­ione, è l’estrema semplifica­zione delle soluzioni: un muro contro i migranti; sepoltura dell’euro e ritorno alle monete nazionali; fuoruscita dall’Unione Europea; rottamazio­ne (sic) della classe politica e ingresso trionfale dei cittadini in Parlamento. Di tanto in tanto, poi, arriva la verifica empirica, quella che Norberto Bobbio chiamava «la dura lezione della storia». Quei terribili semplifica­tori dei populisti non hanno praticamen­te nessuna soluzione a nessuno dei problemi grazie alla denuncia dei quali hanno conquistat­o voti. Togliere il «popolo» ai populisti si può, non demonizzan­dolo, ma approntand­o risposte e costruendo canali di espression­e e strutture di partecipaz­ione per il popolo poiché la democrazia è «potere del popolo». Se rimane solo il potere e il popolo sparisce, gli anglosasso­ni direbbero che fa la sua comparsa un entirely new ball game. È un gioco al quale i democratic­i non possono acconsenti­re.

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