Signorelli o Dalí: le alterne fortune di una fiaba eterna (e inverosimile)
La parabola del poema nell’arte, dai periodi bui alla riscoperta
Se è vero, come ha scritto Gianfranco Contini, «Che la Commedia sia l’unico capolavoro del medio evo europeo tuttora linguisticamente vivo», è altrettanto certo che per lunghi periodi la sua fortuna si è eclissata e che il modo più immediato per capire quali sono stati i secoli bui è attraverso l’arte figurativa.
Tralasciando le illustrazioni miniate, arriviamo direttamente alla fine del Quattrocento dove incontriamo le due pietre miliari, Sandro Botticelli e Luca Signorelli. Il primo realizzò 92 disegni in collaborazione con l’amanuense Niccolò Mangona che incise sul retro delle pergamene il testo della Commedia su commissione di Lorenzo di Pierfrancesco de Medici. Fu questo lavoro, secondo Vasari «cagione di infiniti disordini alla vita sua», a rovinare il pittore perché Botticelli, abbandonata la pittura e «non avendo entrate da vivere, precipitò in disordine grandissimo».
L’altro testo visivo fondamentale è quello dipinto nella cappella di San Brizio del Duomo di Orvieto, dove Luca Signorelli mescola il tema del Giudizio Universale con scene tratte dall’Inferno dantesco. Un groviglio di anatomie umane che dovevano terrorizzare i fedeli e che fu molto ammirato da Michelangelo.
Ma subito dopo questi due interpreti della severità dantesca, il clima cambia. Con la fine del Quattrocento comincia quella breve ma splendida stagione del «Cristianesimo ellenico» dove fra Umanesimo e Chiesa, ragione e fede, non esiste più frattura, ma assoluta continuità. Sono gli anni in cui nelle chiese il racconto della Genesi biblica si mescola con le Metamorfosi di Ovidio e in Vaticano Raffaello dipinge il Parnaso e la Scuola di Atene. In questo momento di grazia in cui, scriveva Henri Focillon, «L’ordine del sublime non è confinato al mistero, al dolore all’oscurità, ma si espande nella calma e nella luce», l’astro di Dante viene eclissato da una ritrovata sintonia con i vecchi ideali del Mediterraneo.
Se Botticelli e Signorelli respiravano ancora lo spirito furioso e severo di Dante, dopo il rogo di Savonarola (che tanto aveva condizionato il Botticelli) va in cenere anche quell’universo di figure spigolose, secche e contorte. Il Cinquecento rispetta, ma non si appassiona a Dante e se ancora grandi artisti come Federico Zuccari o il fiammingo Giovanni Stradano si misurano con la Commedia, ne fanno però un elegante esercizio manierista, espressione del ripiegamento controriformista prima che la società imbocchi definitivamente la strada della scienza e della razionalità. Nel 600 dei teatri anatomici e di Galileo, nel Settecento di Newton e dell’Illuminismo, non c’è spazio accogliente per Dante, percepito come rozzo e primitivo. La costruzione del suo universo appare una fiaba inverosimile. Come potrebbero, Caravaggio e i suoi emuli, loro che dipingono solo dal vero, provare interesse per Dante? Come potrebbe Poussin, di cui Bernini diceva, toccandosi la testa, che «lavora di quassù» preferire i paesaggi danteschi a quelli all’antica?
Per resuscitare, Dante deve attendere la fine del Settecento, ma non sarà l’Italia a farne di nuovo oggetto di culto, bensì l’Inghilterra, il Paese dove, con Edmond Burke, nasce l’estetica del Sublime. William Blake, che lesse la Divina commedia da solo, John Flaxman, il grande scultore di monumenti sepolcrali, cominciano la genìa degli artisti dell’abisso che nei secoli successivi si inoltrerà progressivamente nei territori dell’immaginario, dell’irrazionale e dell’inconscio dove i sentimenti hanno priorità sull’intelletto. Dante Gabriel Rossetti, Johann Heinrich Füssli, Nazareni, Puristi, Preraffaelliti e dietro di loro Romantici, Surrealisti, Joseph Anton Koch, Alberto Martini, Gustave Doré, Salvator Dalì, Aligi Sassu, Robert Rauschenberg, per citarne solo pochi, non si sono limitati a illustrare Dante, ma hanno dato vita a quella che si potrebbe meglio definire una lectura Dantis figuralis, interpretazioni visionarie e immaginative fino ad arrivare ad alterare il poema.
Oblio Il XVI e il XVII secolo non hanno amato il Sommo. Il suo culto rinasce solo a fine ‘700