Il potere delle allegorie che unì le voci del secolo
Mario Luzi era un ermetico, un petrarchesco. Lingua rarefatta: dire sì, ma dire con la giusta nebbia. Però il Paradiso di Dante ogni volta gli toglieva il respiro. Quella forza quasi muscolare con la quale diceva cose che non si potevano (possono?) raccontare, la più potente rappresentazione dell’indicibile lo aveva a tal punto sedotto da fargli realizzare il lavoro a quattro mani con Venturi ma non solo: lo aveva spinto ad adottare alcune soluzioni dantesche a partire dagli anni ‘80 nella propria produzione poetica. Se quello di Luzi è l’esempio forse più noto di dantismo con venature metafisiche, è stata proprio l’inattualità di Dante (per usare un’espressione cara a Vittorio Sermonti) a farlo diventare una sorta di linfa invisibile comune a molti poeti del ’900, quelli che si riappropriavano delle visioni robuste e delle allegorie dopo il digiuno imposto dall’Ottocento positivista. Dante ha nutrito il Pascoli che scrisse «Io ho trovata, tra i roghi e i bronchi che la nascondevano, la porticciuola del gran tempio mistico. E sono entrato, e ho veduto». Attenzione al verbo ho veduto: esattamente come Cézanne nell’arte (qualche decennio prima, certo) si poneva il problema di vedere le cose e non solo di guardarle, così Pascoli studiò intensamente Dante per recuperarne la capacità di costruire simboli, laddove il simbolo non è che la visione piena di una cosa, oltre i confini del reale (come le pere e le mele che Cézanne dipingeva non con i canoni rinascimentali della prospettiva ma così come le vediamo realmente, disposte in disordine sopra a un tavolo). Così come il «bosco sacro» di Thomas S. Eliot è a suo modo una variazione della selva oscura. Il cerchio si chiude con le avanguardie italiane degli anni Sessanta: Giuliani riprende Pound e rielabora il concetto di poesia medioevale. Il nuovissimo è dantesco.