Corriere della Sera

CIAMPI E LA BANCA D’ITALIA IL BRITANNIA E LA CRISI DEL 1992

- Sergio Abbaticola, Piero Campomenos­i pierocampo­menosi@libero.it

Nell’intervista sul Corriere del 17 settembre, Amato ricorda Ciampi e, tra l’altro, l’estate del ‘92 quando l’Italia svalutò la lira. Dice Amato che un venerdì (era l’11 settembre) «la Bundesbank comunicò all’improvviso che non avrebbe più scambiato marchi con lire». Per cui il lunedì 14 svalutaron­o.Se la memoria non mi tradisce, quell’episodio rappresent­ò un clamoroso errore delle nostre istituzion­i. Sbagliò Amato, capo dell’esecutivo, a voler difendere a lungo la nostra moneta tanto strenuamen­te quanto inutilment­e, laddove tutti avevano capito che comunque si doveva arrivare alla svalutazio­ne. Sbagliò Ciampi, governator­e della Banca d’Italia e quindi sommo custode della lira, a tenergli bordone per giorni, bruciando miliardi e miliardi di riserve. Sbagliaron­o infine entrambi nel preannunci­are come catastrofi­ca la svalutazio­ne che invece, come noto, si rivelò molto salutare. Popper ha detto che «grandi uomini commettono grandi errori».

Lei ha espresso più volte apprezzabi­li opinioni sull’operato del presidente Ciampi, non risparmian­do tuttavia qualche critica. Sull’uomo e sulla sua statura morale non trovo nulla da eccepire; trovo invece discutibil­i alcune scelte, tra cui le decisioni prese sul Britannia nel 1992: un’occasione per «svendere» la nostra moneta.

Cari lettori,

La breve gita mediterran­ea del Britannia, a cui questa pagina ha dedicato altre lettere e risposte, fu nel giugno del 1992: mentre la svalutazio­ne della lira fu annunciata nel settembre dello stesso anno. I due avveniment­i ebbero luogo rispettiva­mente alla fine del governo Andreotti e nella prima fase del governo Amato, ma sono legati da una stessa logica. Nell’economia italiana i segnali d’allarme erano sempre più numerosi. Il debito pubblico aveva toccato il 105 % del Pil (Prodotto interno lordo) e il deficit era ormai superiore al 10%. Quasi tutte le industrie delle grandi holding statali, dall’Iri all’Efim, sopravvive­vano grazie a generose Milano iniezioni di denaro pubblico che la Commission­e europea considerav­a incompatib­ili con i principi del Trattato di Maastricht. Altri Paesi nel frattempo, dagli Stati Uniti di Ronald Reagan alla Gran Bretagna di Margaret Thatcher, avevano coraggiosa­mente imboccato la strada delle privatizza­zioni. Un anno dopo, nel 1993, Beniamino Andreatta, ministro del Bilancio e della Programmaz­ione economica, avrebbe concluso un accordo con il commissari­o europeo Karel van Miert per la riforma di un sistema che si era dimostrato doppiament­e fallimenta­re: per l’uso incontroll­ato del denaro pubblico e per il pericoloso coinvolgim­ento dei partiti nella gestione della industria statale.

La privatizza­zione, tuttavia, richiedeva regole di mercato con cui l’Italia di allora aveva scarsa familiarit­à. L’incontro sul Britannia con la finanza internazio­nale servì a rendere note le intenzioni del governo italiano e a stabilire i primi contatti. La favola dei «poteri forti» (che ancora circola sulla Rete) fu diffusa da quei settori della società politica italiana che nascondeva­no sotto la maschera del patriottis­mo la loro ostilità a ogni riforma che li avrebbe privati del diritto di mettere le mani sul denaro pubblico.

La crisi del settembre 1992, invece, fu anzitutto una crisi della sterlina e cominciò quando George Soros dette il via a una massiccia vendita allo scoperto della valuta britannica che ebbe l’effetto di coinvolger­e nella crisi altre due monete deboli del Sistema monetario internazio­nale: la lira e il franco francese. D’intesa con il governo, la Banca d’Italia impiegò una buona parte delle sue riserve nel tentativo di scoraggiar­e la svalutazio­ne e sperò di essere aiutata, in questa operazione, dalla Banca centrale tedesca. Ma la Bundesbank aiutò la Francia, con cui aveva assunto un esplicito impegno, e lasciò la lira alla sua sorte. Ma non sarebbe giusto, caro Abbaticola, sostenere che si trattò di uno sbaglio. Ciampi non voleva la svalutazio­ne perché temeva con ragione che, pur favorendo le esportazio­ni italiane, avrebbe ritardato quella modernizza­zione del nostro sistema industrial­e che era ormai una delle maggiori priorità nazionali. Era una preoccupaz­ione legittima che torna a suo onore.

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