UN’ENORMITÀ DI DATI DA IMPARARE A USARE
Ogni giorno nel mondo si generano due virgola cinque quintilioni di dati attraverso email, acquisti con carte di credito, sensori atmosferici, telefoni cellulari, foto e filmati digitali, ricerche in Internet, cartelle cliniche computerizzate, scambi su Facebook, Twitter eccetera: sono i cosiddetti Big Data (e, per intendersi, un quintilione è un miliardo di miliardi). Un’enorme mole di informazioni che è lì, pronta per essere decodificata e sfruttata.
A che scopo? Le applicazioni sono infinite. Per esempio, queste informazioni possono servire alle agenzie di pubblicità per identificare particolari target interessati a un prodotto e pianificare meglio le campagne di promozione. Ma possono essere di enorme utilità anche in campo sanitario. Come? Per predire la comparsa di epidemie (lo si sta facendo in Africa, sfruttando i dati forniti dai cellulari). Oppure per intercettare effetti collaterali di farmaci quando, dopo l’entrata in commercio, vengono utilizzati su un’ampia fetta di popolazione (i dati si possono ricavare dalle cartelle cliniche). O, ancora, per costruire nuovi modelli di ricerca scientifica.
«Anche il Dna, il nostro codice genetico, contiene milioni di dati che possono essere digitalizzati e interpretati — ha detto Giuseppe Testa, professore di Biologia Molecolare all’Università di Milano, durante la Conferenza sul Futuro della Scienza, promossa, a Venezia, dalle Fondazioni Umberto Veronesi, Silvio Tronchetti Provera e Giorgio Cini — . Ed è proprio la sua decodifica che permette, già oggi, la cosiddetta medicina di precisione, capace di offrire cure tagliate sartorialmente su ogni singolo paziente». Ma non solo: noi stessi generiamo, attraverso gli strumenti tecnologici utilizzati quotidianamente, una quantità gigantesca di informazioni che potrebbero rivelare, per esempio, quali sono i nostri fattori di rischio di malattia e suggerire schemi di prevenzione personalizzati.
Il problema è che siamo agli inizi nell’interpretare i Big Data e ancora ci sono mille questioni da risolvere.
Una di queste riguarda il modo di correlare questi dati per trovare un rapporto di causaeffetto. Per esempio, sono state evidenziate correlazioni fra consumo di mozzarelle procapite e numero di lauree in ingegneria civile, come segnala il matematico italiano Giuseppe Longo, ovviamente senza significato.
C’è, dunque, ancora molto da fare perché Big Data possano davvero aiutare il “futuro della scienza”.