Contro il diabete giochiamo d’anticipo
La prevenzione di questa malattia ora punta sull’individuazione di chi è più a rischio di svilupparla in modo da fermarla sul nascere
iconoscerlo presto per poter intervenire scongiurando danni peggiori. O, meglio, capire ancor prima che si manifesti che il rischio è molto alto e quindi modificare le proprie abitudini e fare controlli più frequenti, così da evitare che compaia.
Oggi l’obiettivo della lotta al diabete è anche questo, per combattere una malattia che colpisce oltre quattro milioni di persone (di questi circa un milione non sa ancora di essere malati). Lo confermano gli studi della Società Italiana di Diabetologia, appena presentati a Monaco durante il congresso dell’European Association for the Study of Diabetes.
«Il diabete, una volta arrivato, non torna indietro — spiega Giorgio Sesti, presidente SID —. Chi è ad alto rischio può sviluppare la malattia in 3-5 anni; poi, quando la glicemia è stabilmente elevata l’effetto domino delle conseguenze negative è già stato avviato: organi e tessuti sono già in sofferenza. L’ideale è intercettare i pazienti prima che si ammalino e per farlo si stanno cercando parametri sempre più sofisticati, che indichino con molto anticipo e con precisione il grado di pericolo di ciascuno».
È il caso della betatrofina, un ormone epatico che potenzia l’attività dell’insulina nei tessuti periferici e, stando a quanto scoperto in un recente studio italiano, è un perfetto indicatore della salute del pancreas. Quando i livelli di questo ormone sono normali è praticamente certo che la ghiandola pancreatica è in grado di produrre insulina a sufficienza, se calano c’è invece una sofferenza che potrebbe trasformarsi in diabete. «La betatrofina sembra anche capace di stimolare la formazione di nuove beta-cellule, quelle che producono insulina e quindi, oltre che come biomarcatore per la diagnosi precoce, potrebbe rivelarsi una futura terapia», aggiunge Roberto Lupi del Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale dell’università di Pisa, che con i suoi studi ha scoperto la correlazione fra l’ormone e la funzionalità pancreatica.
Il dosaggio della betatrofina non è l’unico parametro utile per capire se siamo a rischio: nel laboratorio di genomica del diabete dell’Università Federico II di Napoli si sono scoperti “interruttori genetici” nelle cellule del grasso sottocutaneo che renderebbero i familiari dei diabetici più o meno a rischio di ammalarsi. Chi ha un genitore o un parente stretto malato ha infatti una predisposizione al diabete, che però non è determinante, come chiarisce l’autore della ricerca, Luca Parrillo: «Dieta, esercizio fisico, fumo e altri fattori ambientali agiscono su fattori che possono accendere o spegnere i geni, aumentando o riducendo il rischio di malattia in chi è suscettibile. Il grasso sottocutaneo di chi è ad alto rischio per familiarità non immagazzina a dovere l’energia e favorisce l’accumulo di adipe sugli organi interni, facilitando così alterazioni del metabolismo del glucosio e quindi la comparsa di diabete. Tutto ciò sembra dipendere da “interruttori” che abbiamo individuato nelle cellule adipose e che potrebbero diventare marcatori specifici da valutare in chi ha una predisposizione genetica al diabete». Chi, fra i familiari di diabetici, avesse questi “interruttori”avrebbe una probabilità maggiore di ammalarsi e dovrebbe essere monitorato ancora per intercettare al più presto la malattia.
«In questi pazienti potrebbe essere opportuna un’azione più intensiva di prevenzione attraverso lo stile di vita e in alcuni casi selezionati, a elevatissimo rischio, anche con farmaci», osserva Giorgio Sesti.
Per il momento si tratta di biomarcatori allo studio, ma già oggi abbiamo metodi semplici per capire chi deve considerarsi un sorvegliato speciale e fare misurazioni più ravvicinate della glicemia: sono i soggetti in fase di pre-diabete, oltre due milioni e mezzo di italiani, che è possibile riconoscere tenendo conto di alcuni parametri clinici semplici da valutare.
«La familiarità, l’obesità, l’ipertensione e le dislipidemie, in particolare se i trigliceridi sono alti e il colesterolo Hdl (“buono”) è basso, sono tutti fattori che incrementano la probabilità di ammalarsi— sottolinea il presidente Sid — così come aver sofferto di diabete durante la gravidanza o essere affette da ovaio policistico».
«Mettendo assieme tutti questi elementi si può arrivare a un “punteggio” del rischio che indica la probabilità di ammalarsi nell’arco di cinque anni. In questi soggetti si deve valutare la glicemia a digiuno, l’emoglobina glicata (che indica l’andamento del glucosio ematico nel corso degli ultimi due, tre mesi) e può essere opportuna una curva di carico (si beve una dose di glucosio in quantità standard e si misura la glicemia dopo una e due ore, ndr) per misurare la tolleranza ai carboidrati.
«Se i parametri — continua Sesti— sono alterati, anche solo leggermente, è bene prevedere controlli annuali, perché fra chi ha la glicemia “borderline” una persona su sei, ogni anno, sviluppa il diabete; se tutto è nella norma, invece, dopo i 45 anni può bastare un controllo della glicemia ogni tre anni.
«Purtroppo — conclude l’esperto — molti tendono a pensare che il diabete sia una patologia “tutto o nulla”, tale solo dopo aver oltrepassato un limite definito: la soglia c’è, ma si diventa