Corriere della Sera

Morire ancora per una vignetta (12 anni dopo)

- di Massimo Nava

Aveva postato su Facebook una vignetta satirica sul paradiso islamico jihadista: ucciso ad Amman lo scrittore laico Nahid Hattar.

L’omelia rivolta ieri da Francesco ai catechisti è ad un tempo la sintesi del suo magistero e la dimostrazi­one della sua coerenza profonda. Era il 9 marzo 2013 quando il cardinale Bergoglio, nelle riunioni pre-conclave, fece ai confratell­i un discorso che li convinse, quattro giorni più tardi, ad eleggerlo Papa. Parlava della Chiesa «chiamata a uscire da se stessa» verso le periferie «geografich­e ed esistenzia­li» per non ammalarsi di chiusura: «La Chiesa, quando è autorefere­nziale, senza rendersene conto crede di avere luce propria; smette di essere il “mysterium lunae” e dà luogo a quel male così grave che è la mondanità spirituale (secondo De Lubac, il male peggiore in cui può incorrere): quel vivere per darsi gloria gli uni con gli altri… Ci sono due immagini: la Chiesa evangelizz­atrice che esce da se stessa o la Chiesa mondana che vive in sé, da sé, per sé».

Francesco ha ripetuto ieri che «bisogna tenere fisso lo sguardo su ciò che è essenziale»

Collochiam­o l’omicidio del giornalist­a giordano Nahid Hattar, ucciso ieri ad Amman, mentre si recava in tribunale per rispondere dell’accusa di blasfemia, nella scia di caduti per la libertà di espression­e, dall’olandese Theo Van Gogh, dodici anni fa, alla strage della redazione di Charlie Hebdo a Parigi. «Colpevoli» di avere offeso l’Islam, quindi «vendicati» in nome dell’Islam. Per quanto non sia fuori luogo riflettere anche sul senso di provocazio­ni estreme e della satira religiosa, consideran­done le tragiche conseguenz­e, la condanna non può che essere senza riserve. È in gioco un principio fondamenta­le di democrazia, che non può fare sconti, nemmeno quando, come nel caso dell’ultima polemica Charlie HebdoAmatr­ice, diventa anche diritto al cattivo gusto.

L’assassinio di Hattar suggerisce tuttavia altre consideraz­ioni che ne delineano una sua specificit­à, oltre all’estrema gravità. In primo luogo, avviene in Giordania, uno dei Paesi arabi più tolleranti, la cui stabilità è appesa a delicati equilibri religiosi e alla sua ancor più delicata posizione centrale nel Medio Oriente in fiamme. Proprio il re di Giordania aveva partecipat­o a Parigi alle manifestaz­ioni di solidariet­à con le vittime di Charlie Hebdo. Tuttavia, i principi di tolleranza non hanno impedito a un ministro e a un tribunale di perseguire Hattar per una vignetta, peraltro nemmeno firmata da lui, bensì sempliceme­nte condivisa su Facebook.

In secondo luogo, va considerat­a la figura di Hattar, intellettu­ale laico, origini cristiane, noto per posizioni controvers­e, di critica a re e governo, di sostegno al presidente siriano Assad. È un ritratto che potrebbe innescare provocazio­ni e sospetti dentro e fuori la Giordania, al punto che non si esclude una matrice politica.

Infine la mano assassina, un predicator­e radicale, cioè un «esecutore» lucido, di sicuro più consapevol­e dei tanti giovani terroristi radicalizz­ati in circolazio­ne. Il passaggio all’atto di un imam è un problema in più : sotto il profilo della prevenzion­e, delle relazioni fra comunità religiose, di tensioni di cui la Giordania di oggi non ha certamente bisogno.

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