L’Europa «gruppettara» che alla fine fa male a tutti
Guardare al futuro La capacità di raccogliere adesioni serve molto più dell’illusoria affiliazione a fugaci direttori. Nel suo lungo autunno, l’Ue potrebbe perdere altre foglie. Mobilitiamoci perché l’Italia non si ritrovi fra queste
I n Europa, la stagione estiva, aperta dallo strappo «Brexit» e si è chiusa, mestamente, con il vertice di Bratislava. Le cronache di questi giorni evidenziano il riacuirsi di aspre tensioni, mentre i sogni — tipici della «mezza estate» — svaniscono. In particolare, evaporano in Italia, dove il governo, accarezzata l’idea fare con Germania e Francia una sorta di «direttorio» dell’Unione Europea, si ritrova di fronte il consueto binomio. La realtà Ue vive, da sempre, di una miscela di cooperazione e competizione fra i suoi membri. Il virtuoso interagire dei due fattori è inquadrato — come in ogni contesto civile — da regole adottate di comune accordo e può essere favorito dai buoni rapporti fra i leader politici. La fiducia reciproca fra gli Stati e l’affidabilità dei vari governi dipendono da come i partner li percepiscono. L’Unione non è una federazione, il suo funzionamento è affidato all’armonia fra i Paesi che la compongono. È naturale ed evidente che alcuni s’intendano meglio di altri. Ai fini di una relazione più stretta e solida pesano svariati elementi, soprattutto tre: la convenienza strategica, la continuità nel tempo e le caratteristiche personali di chi governa. Queste chiavi di lettura aiutano a capire perché, non poche volte, le cose non vadano come auspicato.
Alle origini dell’Europa comunitaria ci sono Francia e Germania, dopo secoli di guerre. Sono nazioni che sentono l’epocale responsabilità della loro amicizia; le lega il Trattato dell’Eliseo, base organica di una relazione peculiare e di un forte, coordinato impegno europeo. Chi immagina di dividerle, commette un errore; sottovaluta sia la storia, sia i benefici economici che la certezza del supporto tedesco porta alla Francia. Non è neppure facile unirsi ai due e tantomeno, contrapporsi. In entrambi i casi, la sfida verte sull’interesse di idee e proposte (complementari o alternative a quelle franco-tedesche) e sulla capacità di avere dalla propria parte il maggior numero possibile di altri partner Ue, perché Berlino e Parigi, insieme, hanno molti alleati. Perfino la Gran Bretagna, per incidere realmente,
Legami Non è facile unirsi, tantomeno contrapporsi, alla Francia e alla Germania
doveva trovare le sinergie (come fu per il mercato unico europeo). L’Unione è animata dagli interessi nazionali, in un caleidoscopio di convergenze e divergenze. Quest’ultime, abbondano con riguardo ai complessi fenomeni più recenti: globalizzazione, crisi economica, flussi migratori, guerre vicine, terrorismo. Così, ben più di prima, gli Stati si riuniscono in gruppi ristretti, per tutelare priorità condivise (i più noti sono: i 3 del Benelux, i 4 di Visegrad, i 3 Baltici, i 3 Nordici e da poco, i 6 di Atene). Palesemente, ne soffre la collaborazione nelle sedi comuni Ue e si riduce la possibilità di prendere decisioni conformi all’interesse generale dell’Unione.
Si sta configurando un’Europa «gruppettara», dominata dagli egoismi, dove le sodalità fra Paesi, hanno più sovente uno scopo di contrasto, con il risultato di inibire l’efficacia operativa dell’Unione. I governanti bisticciano e gli organi comuni perdono smalto; gli Stati isolati o in gruppi deboli restano ai margini. Le difficoltà ad agire e il malcontento, inaspriscono le divisioni e viceversa: un circolo vizioso con pesanti conseguenze. I cittadini delusi nelle aspettative, criticano — di solito, con ragione — l’Unione, stimolati
Proposte Chiediamoci se e cosa possiamo fare di meglio per acquisire consensi alle nostre iniziative
dagli stessi politici locali che — spesso per motivi strumentali — le addossano anche colpe non sue. Il processo d’integrazione è incagliato, anzi regredisce. I leader, a prescindere dalla loro età, non riescono a produrre idee risolutive, lungimiranti, di fronte ad ansie concrete: alcuni, richiamano i valori fondanti; tanti ripropongono ricette precedenti; i più, rimproverano «questa Europa», invocandone una che non c’è, attaccando i partner e l’euroburocrazia. Chi governa o ambisce a farlo, ha bisogno di voti nel proprio Paese e rincorre gli elettori con narrative autoassoluto- rie, sovente indicando proprio l’Europa quale capro espiatorio; e si badi, che le elezioni in giro per l’Ue sono frequentissime.
In un simile contesto, la «via nazionale» rappresenta una plausibile panacea? I britannici hanno deciso di lasciare l’Unione; adesso, il nuovo governo è diviso su tempi e modi d’uscita, teme le ripercussioni. Insomma, andarsene è complicato e l’esito incerto, ma seduce. In forma netta o edulcorata, l’idea compare nei programmi dei partiti per le elezioni che, nei prossimi dodici mesi, si terranno in numerosi Stati. Eppure, tutti capiamo che la dimensione e la natura dei problemi da affrontare, imporrebbero di agire a livello europeo. Una logica che, però, vacilla da tempo, a causa delle aspettative tradite. Così, anche in Italia, i sondaggi premiano chi biasima l’Unione «incapace» e «matrigna», condizionata dalla Germania; in pochi ci chiediamo se e cosa possiamo fare di più e meglio, per acquisire un vero e concreto consenso su nostre iniziative. Quando agiamo pro domo nostra ovvero critichiamo condotte altrui, attendibilità, competenza, autorevolezza e capacità di raccogliere adesioni, sono le doti che servono per contare nell’Ue: molto più dell’illusoria affiliazione a fugaci direttori. Contare davvero nell’Ue è un obiettivo fondamentale. Non sbagliamoci: l’Europa unitaria non scomparirà, ma cambierà profondamente. Nel suo lungo autunno, potrebbe perdere altre foglie, volenti o nolenti. Mobilitiamoci affinché l’Italia — almeno — non si ritrovi fra quest’ultime .