Il tocco leggero e gentile di Woody per l’omaggio ai film di una volta
Coinvolgente la malinconica riflessione del regista sui tormenti dell’amore
Gli anni evidentemente portano bene. A ottanta suonati, Woody Allen è ancora capace di regalarci un’opera deliziosa e intelligente come questo Café Society, acidulo omaggio al mondo del cinema di una volta e insieme malinconica riflessione sui tormenti d’amore, tenuti insieme dal suo solito sferzante umorismo. Certo, l’età gli impedisce di essere ancora il protagonista fisico dei suoi film (questa volta è Jesse Eisenberg che interpreta il suo alter ego), ma che sia sempre e solo sua l’anima che vivifica il film è incontestabile. Oltre al fatto che la voce fuori campo che ogni tanto spiega e commenta i fatti, nell’edizione originale è proprio quella di Woody Allen (doppiata nella versione italiana da Leo Gullotta).
E la presenza di questa voce «narrante» permette di sottolineare la prima caratteristica del film, quella di essere costruito in maniera romanzesca, quasi come un libro d’antan, con le libertà che solo un romanzo può concedersi (salti temporali, pause descrittive, improvvisi cambi di prospettiva, arresti su un carattere o un personaggio «minore») che appunto solo l’esistenza di un narratore onnisciente può permettersi di legare e tenere insieme, mentre lo spettatore si fa affascinare dal flusso del racconto.
Storia che comincia a metà degli anni Trenta, a Brooklyn, dove Bobby Dorfman (Eisenberg, appunto) vuole liberarsi dall’atmosfera soffocante della famiglia — la tipica famiglia ebrea che Allen ha raccontato e su cui ha ironizzato tante volte: madre brontolona, padre rassegnato, fratello «disinvolto», sorella sposata a un miliché tante comunista — per fuggire dal negozio di barbiere del padre. Così si presenta a Hollywood, dove lo zio Phil (Carell) è l’agente di molte star. Farsi ricevere non sarà facilissimo ma una volta ammesso alla sua presenza, per Bobby si aprono le porte di un mondo dorato e affascinante, in cui avrà come guida la bella Vonnie (Kristen Stewart), la deliziosa segretaria dello zio. Con lei scoprirà la città, andrà naturalmente al cinema (l’unico elemento che permette di collocare cronologicamente il film: vedono La signora in rosso con Barbara Stanwyck del 1935, e La donna del giorno con Spencer Tracy e Jean Harlow del 1936) e inevitabilmente cadrà prigioniero del suo fascino un po’ malinconico. Per- Vonnie ha un amante segreto, naturalmente sposato, che promette di divorziare ma non trova mai il coraggio di farlo. Così, tra una festa insieme a star e vip e un maldestro tentativo di sesso mercenario, Bobby riesce anche a dichiarare il suo amore a Vonnie, che forse accetterebbe la sua proposta di tornare nella più tranquilla e protettiva New York, se non fosse per un malaugurato autografo di Rodolfo Valentino che svelerà al ragazzo i segreti della sua amata. E che lo rimanderà solo sull’altra costa d’America.
Dove naturalmente il «romanzo» continua, con le attività non proprio impeccabili del fratello maggiore di Bobby, Ben (Corey Stoll), con il night che lui gli affida da dirigere, con il fortunato incontro con Veronica (Blake Lively) e con un’altra vita e un altro amore da inseguire.
Questa materia così romanzesca e appassionante permette al regista di legare insieme due dei temi su cui più ha ragionato e sceneggiato: da una parte, la diffidenza verso il mondo del cinema di Hollywood,
Allen è riuscito a costruire una trama quasi come un libro d’antan con le libertà che solo un romanzo può concedersi
di cui non condivide arrivismo, superficialità e falsi sorrisi (pur amando, e molto, i film che riusciva a fare) e, dall’altra parte, l’«inevitabile» malinconia che si accompagna all’amore, la cui ricerca finisce spesso per trasformarsi in una felicità claudicante, mai davvero piena e goduta. E che prende la forma di quel velo di tristezza, a volte più forte a volte più esile, che la regia fa leggere sui volti di Eisenberg e della Stewart mentre la fotografia «dorata» di Vittorio Storaro (per la prima volta chiamato da Allen per un suo film) ne accentua l’effetto per contrasto. Affidando alla (commovente) dissolvenza incrociata tra i volti dei due protagonisti che chiude il film di suggellare la storia con la dolcezza e la tenerezza che spesso hanno caratterizzato i suoi eroi.
Certo, il film non affronta temi inediti e nel passato del regista ci sono titoli che hanno già trattato questi argomenti, ma qui lo fa con una leggerezza e una gentilezza di tocco affascinanti e coinvolgenti, capaci di trasmettere allo spettatore quella particolare sensazione «alleniana» che ti permette di uscire dal film felice e pacificato. Con l’intelligenza e con il cinema.