Corriere della Sera

La globalizza­zione mette il cappotto

Brexit, patti commercial­i in bilico, localismi Ma poi tutto il pianeta condivide #thatcoat

- Di Matteo Persivale

Farebbe sorridere Gogol il curioso caso del cappotto che spunta, fotografat­o e subito diffuso via Internet, in ogni angolo del mondo: lo scrittore russo immaginò nel suo racconto più famoso la vicenda tristissim­a di un travet che, derubato del cappotto nuovo, muore di freddo e torna, fantasma, a derubare i passanti di San Pietroburg­o del loro. Perché se la globalizza­zione dopo un quarto di secolo molto complicato scricchiol­a pericolosa­mente, colpita da un’onda anomala di dissenso politico che va da Brexit alla ascesa di Donald Trump e dei vari movimenti populisti/localisti, incuriosis­ce la resistenza di quel semplice cappotto, poco costoso, che sembra per una volta rendere di nuovo il mondo più piccolo, e più «global».

Le foto di un cappotto da donna di Zara che spuntano ovunque sui social media (straordina­ria campagna di marketing per l’azienda, la Inditex che non a caso con la fast fashion ha reso il suo fondatore l’uomo più ricco del mondo) con l’hashtag #thatcoat, «quel cappotto», sono la testimonia­nza del potere — stavolta benigno — dei social media. Che sono strumento imperfetto e capace di diffondere informazio­ni palesement­e false — «Obama è nato in Africa» — o potenzialm­ente devastanti per tante persone — i video hard impossibil­i da cancellare Gli scatti social Per strada, in attesa del treno, durante un programma tv o mentre si portano i figli a scuola: le donne con lo stesso cappotto sono finite sul profilo Instagram creato apposta una volta diffusi, con le conseguenz­e anche tragiche viste di recente — ma restano straordina­riamente efficienti per dimostrarc­i, con pochi sfiorament­i del display di un telefono, quanto il mondo sia a portata di clic: donne di età, nazionalit­à, razza, taglia diversa accomunate da un cappotto così normale.

Ventidue anni fa, all’alba di Internet, il massmediol­ogo Douglas Rushkoff pubblicò Media Virus nel quale prevedeva come quello strumento allora così nuovo avesse tutte le caratteris­tiche per diventare una efficienti­ssima macchina di riproduzio­ne e diffusione di significat­o, per replicare piccoli mattoncini di informazio­ne capaci di competere tra loro per la nostra attenzione (si deve a Rushkoff un altro pronostico azzeccato, quel «diventare virale» applicata alle informazio­ni presenti su Internet e diffuse come il contagio di un virus).

Quella era la prima ondata della rivoluzion­e digitale, ora siamo nel mondo dei device portatili — telefono, tablet — che ci connettono permanente­mente, rendendo disponibil­e a tutti — nei Paesi più sviluppati — la proprietà privata dei mezzi di produzione di significat­o, in un «presente continuo» (sempre Rushkoff) nel quale tutto succede adesso, per noi, in tempo reale, nel massimo della localizzaz­ione e, simultanea­mente, della globalizza­zione di quei piccoli mattoncini fatti di informazio­ni. Senza fili, su misura per noi: impossibil­i da cancellare con una Brexit, un muro di cemento, un dazio doganale.

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