La globalizzazione mette il cappotto
Brexit, patti commerciali in bilico, localismi Ma poi tutto il pianeta condivide #thatcoat
Farebbe sorridere Gogol il curioso caso del cappotto che spunta, fotografato e subito diffuso via Internet, in ogni angolo del mondo: lo scrittore russo immaginò nel suo racconto più famoso la vicenda tristissima di un travet che, derubato del cappotto nuovo, muore di freddo e torna, fantasma, a derubare i passanti di San Pietroburgo del loro. Perché se la globalizzazione dopo un quarto di secolo molto complicato scricchiola pericolosamente, colpita da un’onda anomala di dissenso politico che va da Brexit alla ascesa di Donald Trump e dei vari movimenti populisti/localisti, incuriosisce la resistenza di quel semplice cappotto, poco costoso, che sembra per una volta rendere di nuovo il mondo più piccolo, e più «global».
Le foto di un cappotto da donna di Zara che spuntano ovunque sui social media (straordinaria campagna di marketing per l’azienda, la Inditex che non a caso con la fast fashion ha reso il suo fondatore l’uomo più ricco del mondo) con l’hashtag #thatcoat, «quel cappotto», sono la testimonianza del potere — stavolta benigno — dei social media. Che sono strumento imperfetto e capace di diffondere informazioni palesemente false — «Obama è nato in Africa» — o potenzialmente devastanti per tante persone — i video hard impossibili da cancellare Gli scatti social Per strada, in attesa del treno, durante un programma tv o mentre si portano i figli a scuola: le donne con lo stesso cappotto sono finite sul profilo Instagram creato apposta una volta diffusi, con le conseguenze anche tragiche viste di recente — ma restano straordinariamente efficienti per dimostrarci, con pochi sfioramenti del display di un telefono, quanto il mondo sia a portata di clic: donne di età, nazionalità, razza, taglia diversa accomunate da un cappotto così normale.
Ventidue anni fa, all’alba di Internet, il massmediologo Douglas Rushkoff pubblicò Media Virus nel quale prevedeva come quello strumento allora così nuovo avesse tutte le caratteristiche per diventare una efficientissima macchina di riproduzione e diffusione di significato, per replicare piccoli mattoncini di informazione capaci di competere tra loro per la nostra attenzione (si deve a Rushkoff un altro pronostico azzeccato, quel «diventare virale» applicata alle informazioni presenti su Internet e diffuse come il contagio di un virus).
Quella era la prima ondata della rivoluzione digitale, ora siamo nel mondo dei device portatili — telefono, tablet — che ci connettono permanentemente, rendendo disponibile a tutti — nei Paesi più sviluppati — la proprietà privata dei mezzi di produzione di significato, in un «presente continuo» (sempre Rushkoff) nel quale tutto succede adesso, per noi, in tempo reale, nel massimo della localizzazione e, simultaneamente, della globalizzazione di quei piccoli mattoncini fatti di informazioni. Senza fili, su misura per noi: impossibili da cancellare con una Brexit, un muro di cemento, un dazio doganale.